lunedì 30 luglio 2012

RECENSIONE MUSICALE: "THE FINAL DAY" - ODESSA





Prima regola di un giornalista che dovrebbe trovarsi alle dipendenze di un direttore di redazione (ma che vi assicuro non viene mai rispettata), così come regola fondamentale di un blogger come me, ormai subordinato solo a sé stesso, è il sacrosanto comandamento di non farsi mai condizionare nel giudizio dalla pomposità dell’etichetta che produce la band (la cosiddetta legge anti-corruzione di immunità dalla mafia discografica delle major), dalla magniloquenza storica della stessa formazione che si recensisce, dai ricordi emotivi personali legati all’ascolto di determinate canzoni e (come in questo caso) dalle amicizie sparse tra i musicisti ivi coinvolti. Dato che, salvo che per non rare eccezioni, mi ritengo una persona seria (solo quando si parla di arte), non mi esimerò dall’obbligatorietà morale della obiettività, per quanto umanamente difficile. Premesso questo, devo dire che sin dalle primissime note di “The Final Day”, risulta subito chiaro che gli amici in questione, non siano certo dei gretti e ripugnanti compagni di chiacchiere al bar, ma tutt’altro. Qui signore e signori ci troviamo al cospetto di veri musicisti che vantano una raffinata eleganza compositiva, si pavoneggiano in un geniale gusto e inventiva, essendo capaci di forgiare opere e assemblarle in affascinanti arrangiamenti mai esageratamente e pacchianamente  virtuosistici, confezionati saggiamente in parti strumentali dosate e incastonate tra melodie vocali immediate. Già da qui, per un orecchio un poco esperto, risulta evidente il messaggio che i quattro ragazzi marchigiani ci vogliono trasmettere ossia quello di sapere di essere dei musicisti tecnicamente eccellenti, ma per questo non meno attenti all’economicità e all’ottimizzazione della forma-canzone. E’ ciò  del resto che fa la distinzione tra un puerile e volgare ragazzino preso solo da virtuosismi e alla ricerca di una chissà quale improbabile gloria personale, in un mondo distratto e caotico che invece getta tutti indistintamente nell’oblio, e un musicista esperto che sa invece come districarsi in questa sovrappopolata giungla nemica dell’individualità di ciascuno, esprimendosi in funzione della musica ed a beneficio dell’ascoltatore. Le influenze provenienti dal progressivo italiano (di P.f.m., Rovescio della medaglia, Le Orme e Area su tutti) a cavallo tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ’70, che hanno contraddistinto la stoffa di questa formazione sin dalla loro nascita nella seconda metà degli anni ’90, sono, in questo secondo lavoro sulla lunga distanza, un poco più lontane ma mai del tutto sparite: si pensi alla tecnica vocale che fu di Stratos, presa in prestito dal buon Giovagnoli nella ambiziosa ma non stucchevole né scevra da inopportuni azzardi (nonché resa salva quindi dall’imbarazzo!!) interpretazione di “Cometa rossa”, alle parti strumentali di sapore barocco dove le chitarre svettano agili e convincenti su scale eccentriche e pompose, magniloquenti, un poco auto-reverenziali, rincorrendosi  però in un duello polifonico con le tastiere e ricongiungendosi poi nell’armonizzazione del tutto, ma sempre in modo dosato con la saggezza del musicista che è anche musicologo, e mai sovreccitato o antipaticamente superbo, ma ottimizzato in qualcosa di usufruibile anche grazie alla timidezza caratteriale che li contraddistingue, ai tempi dispari incastonati sapientemente tra le melodie portanti in un qualcosa di mai volgarmente strabordante. Il gradevole ascolto di questo disco non ci risparmia anche da qualche venatura di sapore reggae, jazz, funky e soul e, diciamocela, anche da qualche lieve strizzatina d’occhio ai ritornelli pop di facile presa, in un pasto finale dal sapore variopinto e multietnico, sempre filtrando il tutto attraverso quella caleidoscopica lente, onnipresente nelle loro composizioni, colorata di tinte vintage, un poco anacronistiche per questi tempi, dove i signori Giulio Vampa, Valerio De Angelis, Marco Fabbri e Lorenzo Giovagnoli, si mostrano non disattenti alle culture di più stili musicali in varie epoche della nostra storia, eppure (lo so che scrivo periodi troppo lunghi ma portate pazienza, la lettura delle mie pagine deve pur essere un sacrificio!!) riescono ad essere maledettamente e magicamente personali e riconoscibili tra i tanti che si avventurano, con più o meno successo, in questo affascinante mondo che è la musica progressiva. La produzione, affidata al buon Luca “Ciozzi” Maroncelli, risulta discreta anche se, a mio avviso, è un po’ troppo asciutta nel suono della batteria e nell’uscita della voce, rendendola un poco fredda e secca e adombrando l’altrimenti grandezza dell’opera, con una lieve parvenza di quella amatorialità tipica del demo un po’ artigianale,  prontamente però smentita dallo spessore artistico ivi contenuto, ma questa è una scelta puramente stilistica che rientra nei gusti, credo, della band nonché di Mr. Ciozzi. Lasciatemi fare un applauso all’ottima “Senza fiato” che, parafrasando il suo titolo, mi ha lasciato proprio in quello stato, brano completamente libero dalla prigione metrica e stilistica di un testo, che mi ha, per l’appunto, particolarmente rapito anche se, devo ammettere, ho sempre avuto una accentuata predilizione per le musiche interamente strumentali; non è un caso, del resto, se ho suonato in una band siffatta per quasi dieci anni.

VOTO: 8
EMMANUEL MENCHETTI.


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