martedì 9 febbraio 2016

"GLI ESSERI DEL COSMO" (Emmanuel Menchetti - racconto tratto dalla nuova raccolta "LA MANTIDE AGNOSTICA")

Per quale motivo sciocco ed auto-referenziale dovremmo pensare di essere soli nell'universo? ... Non è forse questa infinità di spazio nella quale il nostro pianeta è sospeso, come fluttuanti e inconcluse sono le nostre stesse ipotesi e ricerche, qualcosa che potremmo semplicemente rassegnarci ad accettare come superiore alla nostra capacità di conoscenza? Non è forse nell'ammissione e nel rispetto della propria esiguità e circoscrizione intellettuale che sta la saggezza del pensiero? Perché dovremmo illuderci di essere soli in una dimensione spaziale della quale non conosciamo i confini? Possiamo teorizzare che esistano limiti nello spazio? Non è forse possibile che esista una misura della grandezza che non conosca né la sua fine, né il suo inizio? E' la nostra mente, con la sua caducità temporale e la sua ciclicità fisica, che riassume il tutto in qualcosa di finito, percepisce solo il percepibile, comprende e asserisce solo ciò che nasce e si consuma nello stesso modo in cui associa, per metafore, alla propria essenza, l'ambiente esterno alla sua stessa futilità. E' allora che  la mente umana, per sua natura ricercatrice, di fronte alle irrisolte questioni sulla provenienza dell'universo, sull'identificazione del momento x dell'inizio e sui limiti spazio-temporali del tutto, trovandosi incapace di negare né di accertare, crea l'idea di Dio ed a questa improbabile essenza assiomatica, che necessariamente si sarebbe auto-creata, fa risalire il principio e la causa di tutto. Ma se credessimo anche di essere le sole creature di un ipotetico demiurgo di materia e tempo, se ci convincessimo di essere soli nell'universo, non sarebbe forse essa stessa una ipotesi terrificante? Non sarebbe meno orribile di temere di non avere alcuna compagnia in una stanza vuota e buia, di cui non conosciamo gli angoli più nascosti? ... Pensare, per contro, di essere invece affiancati a qualcuno  o qualcosa di vivente nella stessa stanza buia, senza poterne però ammirare la sagoma, non è forse altrettanto terrificante? L'unica verità assoluta è allora la condivisibile percezione di orrore e raccapriccio che sia l'una, sia l'altra ipotesi, ci provocherebbero. La paura partorisce solo l'idea di ignoto ed informe ed è ancor più vero quanto ciò che, pur nella sua obiettiva mediocrità o bruttezza,  se lo si riconosce, quindi lo si codifica, gli si conferiscono attributi dell'essere, diventa concreto e familiare, trasmettendo l'abitudine a cui istinto naturale e ragionevolezza, conseguentemente e reattivamente, si confanno. L'unica risposta è allora la formulazione di una nuova domanda che parta dalla sagace ammissione della propria incapacità di conoscere, della propria ignoranza di non sapere con cui distinguersi dall'inciviltà, stavolta nello stile e nella gestazione del pensiero ancor più che nella mera sostanza, di chi crea figure divine come capri espiatori, al solo scopo di difendere la propria incapacità di rispondere. Tutto nasce da una domanda e alla domanda torna perché i quesiti non sono etimologicamente fatti per avere risposta, altrimenti si chiamerebbero assiomi ossia domande indipendenti dalla risoluzione, che generano quindi onanisticamente risposte false, per natura, dal proprio grembo. Ma non voglio annoiare il lettore con turpiloqui di cui io stesso scrivo un'apologia della irrisolutezza ed ho fretta di raccontare. Tali quesiti si muovevano come satelliti nella mente del mio protagonista, tra libri di scienza e articoli su visioni di oggetti volanti non identificati, a scandire la noia di una vita rurale, altrimenti vissuta solo tra i campi di un piccolo borgo di campagna. Un giorno incontrò una giovane ragazza, vedendola uscire da un locale sulla strada che, a poche miglia, portava a casa sua. La vide la prima volta, la osservò chiedendosi chi fosse e di dove venisse dato che il paese era piccolo, distante diverse ore di auto dal primo centro cittadino e tutti si conoscevano. Armonizzò dentro di sé pensieri e quesiti che volgevano dal chiedersi se fosse una forestiera, una turista che si era persa entrando nel pub per chiedere informazioni sul tragitto, al perché una persona avrebbe dovuto, seppur per sbaglio, passare per quelle lande così desolate. Il giorno che la vide per la prima volta, la notò allontanarsi verso un campo brullo dietro a dei cespugli, percorrendo un sentiero improvvisato ma in cui la vegetazione mostrava di essere stata già calpestata almeno qualche volta. Dopo questa celestiale visione la donna scomparì ai suoi occhi. Entrò allora di fretta nella porta della locanda da cui la misteriosa donna era uscita e chiese informazioni a suo riguardo, interrogando chi serviva birre dietro al bancone, ma ottenne solo esclamazioni evasive. Pareva che la donna misteriosa fosse entrata, si fosse messa in un angolo da sola ad osservare la gente e poi se ne fosse andata senza parlare con nessuno. Questa descrizione vestì la forestiera di arcano, di incomprensibile, suscitando ancor più la curiosità di conoscerla. Qualche giorno dopo la rivide dalla strada, rientrare nella stessa locanda, fu sicuro di riconoscerla, e decise allora di seguirla. La vide seduta sola in fondo al bancone ad osservare i clienti con occhiate rapide e circospette, come se aspettasse qualcuno, gettando così ponti di analogie con il primo racconto su di lei che aveva ascoltato, anche se la dialettica dei rozzi contadini di un villaggio di campagna, mal si addiceva a permettere di cogliere raffinati dettagli di osservazione, e inopportuna si mostrava nel saperli trasmettere verbalmente. La vide poi alzarsi e uscire dal locale, senza parlare con alcuno e la seguì. Percorse lo stesso tragitto, il sentiero con la vegetazione appena calpestata, seguendo le sue orme, poi la chiamò. Lei si voltò, gli sorrise e sparì dietro un cespuglio che celava uno sterrato attorno ad un vecchio casolare decrepito, inabitato da decenni. Pensò che fosse una nuova inquilina ma si stupì che il casolare non recasse segni di lavori di ristrutturazione, ma si mostrasse invece nello stesso stato di degrado ed abbandono al quale aveva abituato a mostrarsi. Il fatto che rendeva il tutto ancora più misterioso era che da quando era comparsa nel villaggio la misteriosa donna, erano accadute cose insolite. Stormi di uccelli avevano cominciato a defecare in volo insoliti liquidi simili ad un plasma rosaceo, cani abbaiavano di fronte alla visione del nulla e gatti si contorcevano in pose innaturali, emanando miagolii striduli come se qualcosa li stesse infastidendo. Innumerevoli sono le vie percettive dell'istinto animale come  informe e a perdita di vista è l'immaginazione umana di fronte all'insolito, quale provocherebbe la visione di un oceano sommerso dalla nebbia in fusione col cielo, dalla cima di un dirupo a picco su di esso. Dopo notti insonni passate a fantasticare sulla nuova presenza, decise di appostarsi nelle vicinanze del casolare per fermarla e parlarci, tentando così di fare ciò che nessun abitante, paradossalmente curioso, del borgo,  aveva fatto prima. Non passò molte ore di attesa dietro ai rovi a poche decine di metri dalla casa, quando la vide uscire e incamminarsi verso il sentiero. La seguì, le si piantò innanzi e le parlò. "Sei nuova di qui?" le chiese. La donna lo guardò come spaventata. "Abiti in quel casolare?" lei gli sorrise ma non rispose. "Se sei nuova di qui ti posso aiutare a dargli una sistemata! io faccio il contadino, ho costruito un capanno qui vicino dove tengo arnesi e ho anche un orto, se vuoi ti porterò qualche prodotto della mia terra... se ti va". La donna lo guardò, lo fissò come se vedesse un qualcosa di magnifico, di straordinariamente irriconoscibile e diverso da tutto ciò che avesse conosciuto prima. Sfiorò il contadino con mani ossute. L'uomo sentì le sue dita fredde come il ghiaccio. Osservò i suoi occhi senza ciglia né sguardo, all'interno dei quali l'iride in assenza della direzionalità delle pupille, pareva invadere con un univoco colore bluastro, tutto il bulbo. Percepì la stranezza di quella visione. Sembrava che la donna non avesse conosciuto figura umana prima e che fosse incapace di parlare. Forse era muta, pensò l'uomo.  Ad un tratto si bloccò, come se fosse stata colta da profonda ipnosi. Lui cercò di muoverle le mani di fronte agli occhi ma era come se lei non le vedesse, non rispondeva minimamente ai gesti, come se la sua mente fosse imprigionata in uno stato comatoso, lontano anni luce dalla realtà sensibile. Impaurito dal fatto che potesse essere colta da un ictus o una qualsiasi forma emorragica di privazione del pensiero, la afferrò per le mani, ma il suo corpo era rigido ed impiantato sui propri piedi come se questi, a loro volta, avessero tessuto radici sotto al terreno. Rimase in questo stato di privazione della coscienza per alcuni minuti di assoluta impotenza e sospensione di ogni forma di vita neuronale e molecolare. Poi sembrò riprendersi, ma con lo stesso sguardo perso nel vuoto e la fronte ora aggrottata, in antitesi con la previa distensione dei lineamenti ma ancor privi di rughe nella pelle, si girò e, senza parlare, camminò indietro lasciando di sé solo la visione della chioma di capelli a gettarsi sulle spalle curve, tornando al casolare sino ad entrarvi e chiudere la porta dietro di sé. Dopo quell'avvenimento le notti insonni passate a tentare di capire, per l'uomo, si moltiplicarono. Cercò anche di fare domande in giro ma non riuscì ad ottenere alcuna informazione sulla misteriosa donna, dai compaesani che, anzi, lo deridevano di fronte al racconto di quella vicenda. Cercò di parlare dell'accaduto con un medico che trovò solo in città a diverse miglia dal paese, implorando una sua visita a casa della malata ma lui si rifiutò di recarsi sino in contea, sostenendo che non facesse parte della sua giurisdizione di copertura sanitaria. La soluzione dell'arcano non era che nelle sue uniche forze. Si decise allora ad aspettare il momento più opportuno per recarsi nel casolare e far luce su ciò che stava accadendo. Intanto morie di pesci con branchie gonfie e livide e bulbi oculari fuori dalle loro orbite, infestavano i ruscelli, accatastandosi in mucchi di cadaveri e formando dighe che ostacolavano il defluire delle acque mentre le piantagioni di patate, sedani e carote stavano morendo disseccate anche se non erano cadute meno piogge del solito in quella stagione. I cavalli perdevano la loro criniera e nessun insetto ronzava nel cerchio di qualche decina di metri dal casolare, lasciandolo in un silenzio irreale in cui l'aria che si respirava tutta intorno, era come corrotta da un aspro e acidulo odore di marcio, quasi se sostanze organiche fossero state abbandonate in uno stato di putrefazione al suo interno. Col passare dei giorni, le contaminazioni dell'aria, dell'acqua, degli animali e dei raccolti, non risparmiarono neppure gli umani. Alcuni di questi persero ogni bulbo pilifero, capelli, ogni sorta di pelo pur dal naso o dai lobi delle orecchie, anche le ciglia e tutti gli altri che non erano ancora perfettamente calvi e nudi come neonati, se ne fuggirono nelle lontane città a raccontare storie improbabili di infestazioni chimiche dei campi, forse ad opera di attentatori di religioni o culture ostili. Una notte, più silenziosa delle altre, uno stato di sonnambula agitazione delle membra svegliò l'uomo di cui vi ho parlato, e lo guidò contro al suo volere, prigioniero di uno stato ipnotico, per un paio di miglia fuori dalla propria abitazione, fino al casolare dei misteri. Era per la sua mente scossa dal previo torpore onirico, come vivere un nuovo sogno con la stessa impotenza della volontà, ma trascinato da una forza che concretamente ne attirava il corpo, quasi fosse guidato da un'intelligenza estranea all'organismo stesso. Una concentrazione di forze occulte che si opponevano al pensiero e al comando del corpo. Quando, nel chiarore argenteo della luce lunare, raggiunse e varcò la porta del decrepito rudere dove viveva la donna dei misteri, la vide nuda di fronte a lui, come se lo aspettasse. Lei lo prese per mano e lo portò in una stanza. Lo fece stendere supino in un altare di pietra fredda. Tutto questo accadde sotto lo sguardo vigile della coscienza del contadino inerme, che però rimase inerte di fronte al desiderio di fuga, avendo perso il comando degli arti e di ogni terminazione nervosa. Le sue mani e i piedi furono legati con un laccio stretto nella posizione dell'uomo vitruviano. Comparvero allora tutt'intorno esseri ignobili, nani, di una bruttezza informe, con occhi giganti e incolori, senza sguardo, lunghi tentacoli sopra ciò che lontanamente potevano sembrare delle teste, affossate, senza collo, in corpi squamosi, che si muovevano nello spazio senza piegarsi o distendersi ma semplicemente fluttuando, come scivolassero su tenaglie di muco. Un essere di massa corporea più grande di loro, sempre che di materia si potesse parlare, ma non meno orribile, fluttuò sul suo corpo prigioniero e opportunamente denudato dagli alieni. Sotto la pancia molliccia del mostro così accovacciato sopra, si aprì un vortice di squamose labbra vaginali che attanagliarono il suo membro fino ad eccitarlo con un solo movimento meccanico e rotatorio, mentre odori nefasti di consumo corporale si liberavano nell'aria già corrotta. Quando il pene del prigioniero, con l'ausilio del solo movimento meccanico di quelle membrane, pur con la mente dissociata in perfetta antitesi da alcun pensiero libidinoso, arrivò all'inatteso orgasmo, la grande genitrice aliena liberò all'interno della sua mostruosa vagina, innumerevoli alveari di ovuli che raccolsero lo sperma umano, facendolo defluire in sacche contenenti larve fetali di organismi il cui dna e la cui codifica cromosomica, sarebbe rimasta inesplorata dalla scienza ancora per chissà quanti millenni, se il nuovo ospite del pianeta terra, non fosse venuto esso stesso incontro alla curiosità umana, mosso da velleità di sperimentazione genetica, finalizzata all'invasione totale e incontrastata dell'umanità.

Emmanuel Menchetti.

sabato 6 febbraio 2016

"LA LUCE IN FONDO AL BUIO" (Emmanuel Menchetti - tratto dalla raccolta "LA MANTIDE AGNOSTICA")

Nell'aprile dello scorso anno, complice una ritrovata voglia in me di viaggiare e respirare aria nuova, unita al desiderio di riscoprire il piacere di stare da solo a riflettere sulla mia vita passata e su quello che sarebbe stato il mio futuro, armatomi di book fotografici della mia adolescenza e prima infanzia da ammirare, libri di narrativa americana del '900 e dell'opportuno biglietto ferroviario per Zurigo, mi avviai lungo i binari della stazione di Milano, alla ricerca della carrozza numerata del treno che avrebbe attraversato, lungo la linea del San Gottardo, il tratto più impervio dell'intero arco alpino fino a portarmi, con un tragitto senza fermate, alla splendida città elvetica. Era un treno delle ferrovie tedesche, a prima vista, moderno e ben equipaggiato di tutti i comfort necessari e quando entrai nella carrozza indicata dal mio biglietto, mi accorsi che era piena di gente sorridente e dai modi rassicuranti, intenta col più scrupoloso garbo, a posizionare le valigie nel modo civilmente più consono per non creare disturbo al vicinato. Era una bella giornata di primavera, anche il sole era a suo modo... rassicurante. Camminai lungo il corridoio che separava le due file dei posti a sedere, trascinandomi dietro la valigia, intento ad osservare le numerazioni riportate, sperando di raggiungere presto quella del posto assegnatomi. Quando raggiunsi il numero cercato, mi accorsi che, insolitamente, di fianco alla mia prenotazione, non vi erano altri posti occupati. Inizialmente me ne stupii, visto il quantitativo di gente, ma poi mi dissi che era meglio così, almeno avrei viaggiato più tranquillo e sereno, del resto volevo stare da solo e non cercavo compagnia. Era tutto così sotto controllo, un po' troppo perfetto, finalmente era arrivato il giorno della tanto agognata partenza, il sole splendeva, ero felicemente solo, i treni erano stati in orario e non avevo perso la preziosa e necessaria coincidenza da Bologna, eppure c'era una lieve nota negativa che mi opprimeva leggermente. Inizialmente non ci feci più di tanto caso, pensai che era insito nel mio carattere introspettivo e di instancabile ricercatore, il piacere perverso di creare sempre un qualcosa che non andava per temere di soccombere alla noia della gioia più semplice. Il treno partì e tirai fuori il book fotografico che avevo con me, guardando alcune mie foto di tantissimi anni prima. La visione di quegli specchi consunti del passato, richiamò alla mente magici momenti della mia prima giovinezza vissuta nella spensieratezza e nella gioia tipica di quell'età, tra le braccia di una famiglia amorevole, che mi aveva cresciuto con orgoglio e innumerevoli attenzioni, donando caratteri di mansuetudine al mio temperamento ed educazione allo stile. Ripercorsi tutti i capitoli della mia storia, pensai a riguardo delle mie scelte passate mentre il paesaggio mi correva in verso contrario a quello del treno, dalla visione del mio finestrino. Mi misi a riflettere intorno all'influenza delle mie scelte sul percorso della mia stessa vita, ipotizzando quanto questa sarebbe stata diversa se avessi preso volontariamente strade alternative non percorse, e posai la mia attenzione ed il mio scrupolo sul quesito teso ad indagare sul quanto la mia volontà effettivamente avesse influito la casualità degli eventi domandandomi se, per contro, non fossero invece stati gli eventi ad avere totale potere sul corso delle mie scelte. Pensai ai primi amori giovanili. Mi chiesi se quelle ragazze incontrate casualmente e poi così tanto amate nell'età delle grandi passioni e delle intense speranze, avessero avuto la stessa importanza o se la storia d'amore a cui le associavo, avesse seguito un percorso diverso, se le avessi conosciute in altre fasi della mia vita, dove le ricerche individuali mostravano la loro suscettibilità di fronte al tempo, dove i mutamenti ambientali gettavano luce sulla caducità delle convinzioni e sul potere illusorio dei fragili ma intensi sentimenti giovanili. Mi addentrai nelle visioni dei ricordi alla ricerca di un pentimento, di un seppur timido rincrescimento, un rammarico per una strada sbagliata ma percorsa; cercai il rimorso per sentirmi colpevole di qualcosa e addossarmi il fallimento della mia sopravvenuta solitudine, ma poi mi tranquillizzai al pensiero che avevo comunque fatto ciò che il contesto dell'epoca, degli avvenimenti e del mio stato mentale in quel tempo, mi avevano suggerito. Mi resi conto, con tornata attenzione al presente, che avevo scorto l'intero arco della mia vita, racchiudendola in poche riflessioni, in una ricapitolazione necessaria al riavvolgimento di innumerevoli episodi, come se la mia totale esistenza fosse un libro raccolto afferrandolo da un angolo della copertina, richiamando l'immagine e la metafora del gattino afferrato dal collo per sollevarlo. Mi accorsi che avevo riassunto tutta la mia vita come se temessi il sopraggiungere della morte. Avevo come il bisogno di fissare un punto fermo di riflessione nel corso apparentemente interminabile della mia esistenza, per creare una sintesi che collegasse le varie epoche, posizionarle in un momento preciso come frammenti di un puzzle e conferire ad ognuno di essi una cornice opportuna, con l'arte e la dimestichezza mentale della sintesi, prelevando dalla concatenazione di pensieri un inizio da dove ripartire con un livello maggiore di saggezza, propedeutico ad una auspicata comprensione degli eventi futuri. Pensai alla essenzialità degli sbagli nella vita, alla loro necessaria rilevanza nel raffinare la percezione degli eventi e lo stile con cui poi si riaffronta la vita stessa. Mi illuminai come il sole che mi mirava fuori dal finestrino, all'idea che il passato è necessario alla comprensione del presente ed ha l'importante ruolo di guidare il futuro nei percorsi che faremo. Questa riflessione mi fece sentire meno patetico all'idea di rivangare nostalgicamente dei ricordi lontani, perché se il passato mi aveva insegnato a vivere nel presente, allora non era stato inutile e anche le vicende nate e terminate nel corso della vita, non erano state fini a se stesse ma tutte utili a costruire un percorso di luce pur nel buio della solitudine sopraggiunta. Porsi poi le mie fotografie nella valigia, mi misi a leggere qualche pagina di un racconto breve di Raymond Carver, e riguardai il finestrino accorgendomi che il paesaggio si era già fatto aspro e montuoso. Finito di leggerne un racconto, posai il libro nella tasca superiore della valigia e guardai i volti della gente mentre parlava animatamente, o mentre sgranocchiava pasti improvvisati e poi rivoltai lo sguardo incuriosito verso le montagne e i pendii che scendevano a picco su di noi quasi a volerci sommergere di roccia e subito dopo gettandola giù sotto i ponti che, con intenso genio architettonico, si inerpicavano tra precipizi, scavando gallerie e correndo sopra cascate di acqua limpida e cristallina, che raggiava di luce sotto i fili di tela lucente che il sole intarsiava, infiltrandoli tra le cime dei monti, come a voler determinare il suo potere illuminante anche sulle ombre dimenticate del mondo, tra gli anfratti di buio e roccia, dove le poesie sono pronte per vedere la luce su pagine dimenticate di libri scritti da scrittori soli. Con queste soavi visioni, mi addormentai sul morbido cuscino, lasciandomi cullare dal rumore metronomico dei binari che sentivo scorrere sotto i miei piedi, regalandomi un formicolio rasserenante e confortevole. Il rumore delle rotaie aveva una temporaneità regolare, scandita, che si stagliava nelle visioni sonnambule del mio stato di veglia ormai sopraffatta dal sonno. Il sonno. Il buio. Il nulla. Questa morte apparente che ci strappa alle visioni celesti della vita e alle bellezze del mondo per cui non basterebbero invece occhi umani per ammirarle nello splendore di ogni loro angolo più nascosto. E poi .... il silenzio, quel silenzio che ti fa sentire solo pur in mezzo alla gente. Il buio nero come la pece. Il buio di una galleria costruita nel cuore della roccia sotto il peso delle montagne, dove la presenza umana non doveva venire e lasciarsi odiare, quei trafori sotto le montagne simbolo dell'orgoglio umano che ha tentato di vincere le leggi della natura, lasciando il suo segno anche dove la roccia doveva essere lasciata sola e incontaminata, anche dove il silenzio doveva regnare sulle parole inutili. Il buio, poi... più nulla. Ad un tratto, tornando frastornato come da un sonno senza sogni, riudii il rumore regolare del passaggio del treno, ma con un volume maggiore come fosse riverberato dalle pareti di un tubo e non più come se corresse libero nell'aria aperta. Aprii lentamente gli occhi e vidi il buio fuori, tra il rumore assordante e la carrozza illuminata solo dalla luce artificiale, fredda, bianca ma di un candore artefatto, che tentava di simulare il chiarore naturale del sole ma che non gli somigliava affatto. Mi strofinai gli occhi per vedere meglio e capire la situazione attorno perché ad un'occhiata un poco più attenta, mi accorsi che nella carrozza ero rimasto solo tranne una unica persona seduta a pochi posti dal mio. Era come se, durante il mio sonno, se ne fossero andati via tutti eppure la tratta era diretta e non aveva fermate fino al capolinea di destinazione. Guardai il finestrino e vidi solo il buio fuori e capii presto di esserci addentrati in una galleria. Pensai che avrei preferito dormire lungo il percorso del traforo vista la mia acuta claustrofobia, forse tipica di chi teme di racchiudere la propria grandezza nel buio anonimato di un corridoio senza finestre o di un ascensore, ma la mia attenzione, per il momento, verteva sulla quasi totale assenza di persone perché non riuscivo a comprenderla. Mi rivolsi allora al mio unico interlocutore, anche se a mirarlo meglio, mi accorsi che non aveva un aspetto rassicurante ma anzi tutt'altro. Aveva un'aria spaventata, uno sguardo fisso nel vuoto, il riflesso del neon sopra la sua testa pelata, tradiva la presenza di una forte sudorazione. L'uomo guardava dritto nel vuoto di fronte a se e sgranocchiava noccioline in modo compulsivo prendendone a decine ad ogni rapida manciata da un sacchetto stropicciato, quasi avesse un baratro infinito al posto dello stomaco e fosse privo di epiglottide per inghiottire. Mi feci però forza e violentando il mio pudore e il senso di disprezzo per quella visione di orrore, decisi di lasciarmi sopraffare dal mio istinto, mosso dal desiderio di comprensione e fomentato dal senso di panico crescente. "Dove sono le altre persone?" - "Quali altre persone....?" chiese l'uomo mentre masticava "....qui non c'è più nessuno, solo io e lei, non vede?" La risposta mi disturbò alquanto, non sopportavo le verità incomprensibili e provavo ripudio per chi parlasse mangiando, senza guardare il proprio interlocutore e per di più, rispondendo ad una domanda con una domanda. Ma mi feci forza per dominare lo sconcerto ed il ribrezzo che quell'essere mi provocava, e giudicai che il desiderio di comprensione fosse più importante in quel momento insolito. Raccolsi le mie misantropiche inerzie di spirito associale e ritenni più saggio persistere nella comunicazione. "Ma come, quali persone, quelle che erano qui!! ... dove diavolo sono andate?" feci io alzando il tono della mia voce. Ascoltando il mio stesso timbro traballante che tradiva il senso di paura, venni attanagliato da un crescente terrore. "Qui non c'è più nessuno, si sono lanciati tutti dal finestrino, siamo rimasti solo io e....sgrunch....sgrunch........sgrunch......e lei!!!" disse masticando mentre le noccioline cadevano dalle sue labbra bavose. Capii di trovarmi di fronte ad un pazzo completo e la cosa mi rassicurò ancor meno del trovarmi solo in quel tunnel lugubre. "Che diavolo significa che si sono lanciati?....e perché lo avrebbero fatto?" l'uomo continuò a masticare senza rispondermi né rivolgermi lo sguardo, ma continuando a fissare il nulla di fronte a se. "Cristo, ma da quando siamo entrati in questa galleria?.... il treno continua a correre ma qui non si vede uno spiraglio di luce". Ad un tratto l'uomo volse il volto verso di me, allorché potei contemplare meglio l'orrore asimmetrico del suo viso mentre la sua bocca storta masticava avidamente senza soluzione di continuità, e lo sguardo ipnotizzato mi fissava ma come se non mi vedesse. La pupilla era immobile su di me, il sudore colava dalla fronte, le guance ruminavano. "E' questo il motivo per cui si sono tutti lanciati dal finestrino!" ...."che significa?" ...chiesi io. "Questo tragitto non ha fine, il treno corre intorno a se stesso in modo circolare perché ha agganciato i cavi di un raccordo di collegamento alla nuova galleria, che corre sotto la stessa montagna, entra nel nuovo traforo in costruzione ma poi si riaggancia al raccordo precedente che lo riporta ciclicamente al tunnel più vecchio senza mai così uscirne e l'alta velocità non gli permette di sganciarsi dai cavi neppure con l'intervento umano, siamo imprigionati qui soli io e lei fino a quando esisterà elettricità a muovere il treno!" "che diavolo significa, come fa a sapere tutte queste cose e non c'è nessuno alla guida e al controllo di questo treno?" "si è lanciato anche lui dal finestrino!" "non è possibile, si accorgeranno del disastro, fermeranno l'elettricità e qualcuno verrà a prenderci!" fu allora che il suo tono si fece più calmo, come rassegnato alla fine incombente "non è possibile fermare di colpo l'elettricità, il treno perderebbe l'aderenza al binario e deraglierebbe contro le pareti del tunnel rischiando di esplodere e provocare l'incendio di tutto il condotto" "ma che assurdità dice, come fa a sapere queste cose?" .... .... fece una lunga pausa ... .... "perché io sono l'ingegnere che ha progettato il tunnel e i suoi raccordi e mi trovo qui per verificare di persona che il viaggio non prendesse questa piega, lei non sa probabilmente che era la prima corsa sperimentale, sono qui a capire che ho fallito, queste persone le ho uccise io con i miei folli tentativi di risparmiare i pochi fondi ricevuti per la costruzione del nuovo tunnel, utilizzando semplici raccordi con il vecchio traforo ma ottenere comunque l'appalto delle costruzioni affidate alla mia azienda cliente" "E' assurdo, lei è pazzo, non è possibile!!" ... e fissandomi ora più da vicino mi disse con tono scuro e dizione maggiormente scandita "lo vedi che è ancora buio fuori?!" prese poi una borsa, estrasse una pistola, se la ficcò in bocca e sparò. Il colpo uscì dalla parte superiore della testa schizzando sangue sul soffitto. Urlai ormai in preda alla disperazione, senza più controllo di me stesso e mi lanciai verso la pistola ancora in mano al cadavere seduto con la testa fracassata. Gliela presi e me la puntai contro il cuore. Azionai senza pensarci un attimo il grilletto ma il colpo non partì, capii che il bastardo aveva caricato un solo proiettile in canna, quello decisivo, quello egoisticamente custodito solo per lui. Mi inginocchiai nel corridoio e mi misi a urlare e a piangere, sentendomi impotente nel tentativo di lanciarmi fuori contro la folle corsa del treno impazzito. Guardai il finestrino e vidi il passaggio di un neon di colore verde che avevo notato poco prima e capii che il treno stava veramente correndo ciclicamente attorno allo stesso tragitto. No, pensai che dovevano essere le istallazioni di soccorso posizionate a intervalli regolari lungo il traforo, ma non mi spiegai la durata interminabile del buio fuori, avremmo ormai dovuto percorrere almeno un centinaio di kilometri dal mio risveglio e nessun tunnel al mondo aveva una tale lunghezza. Mi alzai e, barcollando per la rassegnazione, mi incamminai verso le altre carrozze, scoprendole tutte tristemente vuote, ma con i finestrini aperti il che giustificava il chiasso assordante notato prima. Dopo aver percorso decine di macchine tutte nello stesso stato di abbandono e degrado, mi misi a sedere in attesa di nessuno e chiusi gli occhi mentre le lacrime scendevano sotto le palpebre. Udii solo il chiasso delle finestre aperte, sentii il vento schiaffeggiarmi il viso mentre spingeva dai finestrini spalancati, l'aria viziata e corrotta del tunnel senza fine. Dormii vinto dalla rassegnazione di quel dolore che non avrebbe conosciuto soluzione. Pensai che mi avrebbe ucciso la sete ancor prima della fame. Pensai.... pensai.... non ricordo più a cosa fino a quando una mano mi scosse per la spalla e una voce mi disse "Signore, il biglietto!!" con un accento tedesco. Le persone intorno mi guardavano esterrefatte, la carrozza era piena, la luce del sole risplendeva pur dalle tende chiuse. Fuori il paesaggio correva incontro, non c'erano più montagne, ma colline verdi che trasparivano pur dalla tenda giallognola. Estrassi, con un sospiro, il biglietto dalla valigia e lo consegnai al controllore, maledicendo, nel silenzio del mio torpore, il mio stesso sonno.

Emmanuel Menchetti.