mercoledì 26 febbraio 2014

MIO RACCONTO - "IL VIAGGIO"

"....Ti prego, aiutami, ho bisogno di trovarmi una sistemazione, un lavoro....una nuova vita!" - così terminava la lunga missiva con cui Jacques tentò di spiegare a sua zia Brigitte, la propria condizione priva di futuro, dopo la morte dei genitori in un incidente aereo. La mancanza di un lavoro che lo potesse sostenere, l'affitto da pagare in una casa rimasta luttuosamente vuota in seguito alla improvvisa disgrazia, lo spinse alla disperata scelta di un'emigrazione, vista come l'ultima via d'uscita da una situazione insostenibile di povertà altrimenti sicura, di solitudine, senza più appoggi. Jacques era un ragazzo ancora giovane, appena diplomato, inesperto in qualsiasi lavoro che potesse dar da mangiare invece ad un uomo divenuto indipendente, nelle selvagge regole non scritte di una società sempre più simile a una giungla senza diritti; si sentiva come vergine di fronte alla prima ludica occasione di conquistarsi una donna, abituato solo a comportarsi da bambino, avvezzo unicamente al farsi mantenere, non per colpa, ma per eccessivo amore dei genitori improvvisamente scomparsi, unito alla triste sorte degli eventi che nulla rassicura ma tutto lascia al caso. Chi si sarebbe ora preso cura di lui in seguito alla traumatica amputazione del cordone ombelicale che lo legava alla madre, in un ventre materno rimasto vuoto e senza più le sue mura ristoratrici? Chi mai avrebbe dato un lavoro ad un ragazzo inesperto senza qualche conoscenza o appoggio paterno? .... e a chi chiedere aiuto se non a quella strana zitella che rispondeva alla figura della sorella materna, rimasta vedova in seguito alla grave malattia degenarativa che colpì il marito molti anni prima? Era costei una donna ormai vicina alla soglia che, pur rispettosamente, può essere definita anzianità, sofferente di quella inguaribile malattia cronica chiamata depressione o meno drammaticamente nostalgia e che affligge le menti delle persone rimaste sole oltre una certa età, quando ormai le speranze e la ingenua visione del futuro lasciano spazio al solo cinismo e alla certezza, pur talvolta presuntuosa, sul corso degli eventi nonchè alla conseguente malinconia del passato, rivissuto mentalmente sempre come migliore rispetto al presente e in relazione a quello che obiettivamente fu. L'inattività lavorativa sopraggiunta in seguito all'età e permessa dalla reversibilità della pensione del marito deceduto, non fece altro che infuocare tale nostalgia e considerazione del passato. Il senso di inutilità unito alla nullafacenza, il conseguente tempo rimasto per pensare, consegnato all'improduttività e tolto per contro al lavoro e all'attività mentale, unito a quella triste fase del nostro tempo in cui la mente è propensa più a ricordare che a produrre per il presente, portarono la zia Brigitte ad uno stato di solitudine divenuto ormai insopportabile e tale per cui, la morte dell'amata sorella e l'occasione che questo le porse, quasi le sembrò più un'opportunità di riscatto che un vero e proprio lutto al quale inginocchiarsi in modo impotente. Del resto, tutti dobbiamo morire, questo le aveva insegnato il pervenuto cinismo, lontano anni luce dalle gaie ingenuità giovanili, ma pochi sanno invece che anche a un certo punto dell'esistenza, quando tutto sembra ormai irrimediabilmente spento e terminato, la vita ci possa presentare ancora un'occasione e questo la donna pensò. L'opportunità fu il potersi circondare di una persona giovane che le facesse compagnia e il fatto che il proprio nipote, rimasto orfano, le chiedesse egli stesso aiuto, le parve la materializzazione di una mano dal cielo. Per comunione di interessi sembrava che i loro destini si fossero irrimediabilmente incrociati in modo ormai indissolubile. Superato il dolore per la perdita della sorella, Brigitte fu come ristabilita moralmente quando lesse la lettera del nipote. Quale migliore occasione per potersi circondare del calore di un'altra anima in una casa rimasta vuota da anni, in mezzo alle Alpi francesi, vicino al confine italiano, in un paesino di una decina di altre piccole dimore? Di certo Jacques non avrebbe potuto trovare facilmente una nuova occupazione in un villaggio di contadini sperduto nella purezza di quelle montagne così ospitali ma inaccessibili, ma la pensione della zia unita alla economicità di una vita vissuta comodamente in una casa di proprietà, avrebbe loro permesso di attingervi comunque dignitosamente, preoccupandosi solo di curarsi della necessarietà delle faccende domestiche. Il fatto che Jacques non avrebbe mai più trovato un'occupazione in quel verde immerso nella saggia tranquillità della natura più incontaminata, in un certo senso, rassicurava pure l'anziana donna dal timore di ritornare sola. "Ti prometto che se un giorno ne avrai bisogno, io ti aiuterò, noi ci aiuteremo!" - ricordò la frase della sorella detta quando erano bambine. Quella le sembrò pure l'occasione per mantenere la reciproca promessa fatta. La sorella sarebbe stata felice di lasciarle il proprio cucciolo e Brigitte era orgogliosa di aiutarlo, anche pensando a lei. Le argomentazioni che ci portano a fare delle scelte spesso smuovono considerazioni, desideri anche inconsci, talvolta contrastanti, più di quanti consapevolmente si pensa di contemplare. Jacques dal canto suo, vide in quella donna la sua salvatrice, la predestinata a dare un alito di nuova linfa alla sua condizione altrimenti priva di speranza. Era già stato in vacanza da piccolo nella casa della zia, quando ancora il marito della donna era vivo, ed il ricordo delle passeggiate col cane in quei sentieri sotto i quali pareva che si propagasse l'intero mondo, visto dal punto più alto, come dal suo probabile tetto, lo colmò di entusiasmo con la suggestione della montagna più pura, dei paesaggi più incontaminati, delle distese erbose tra gli alberi, negando la confusione cittadina che ci distrae dalla reale ricerca del nostro io e che sola può essere esaudita nell' incontro con la natura selvaggia dalla quale proveniamo. Con questa speranza di riscatto della propria vita dal lutto familiare, Jacques fece presto la valigia e partì per le Alpi, libero ormai da preoccupazioni di sopravvivenza. Appena arrivò nella ritirata dimora della zia, tra le selve e le rocce di quelle montagne imponenti che pareva rivendicassero la loro libertà dall'umano presidio, rivide la casa esattamente come se la ricordava. Riconobbe la carta da parati a fiori rosa stesa sulle mura, la vista frontale sui prati che, quasi fossero tappeti verdi, parevano gettati come da una mano divina nel baratro della valle sottostante, circoncisa da montagne maestose che gettavano le loro oscure ombre sulle foreste e sulle casupole disseminate, arroccate nei loro fianchi. Rivide il giardino sul retro che accoglieva il principio di un bosco, i cui sentieri erano appena visibili nell'ombra gettata dai rami contorti e invitavano all'escursione a chi si trovasse affacciato alla finestra della cucina. Riconobbe il soggiorno, la terrazza frontale, il pianoforte verticale mai utilizzato di fianco alla porta del bagno, il lampadario di cristalli nel salotto. Tutto come nella sua visione infantile di tanti anni prima. Era una piccola casetta nel mezzo del verde, una dimora umile nelle dimensioni ma signorile nello stile e nell'arredamento ed in questo il ragazzo individuò il tocco materno. Vide in quella donna che gentilmente lo ospitava, come una nuova madre e nei momenti in cui la sua fantasia era sovraeccitata, come la possessione dello spirito materno che lo accoglieva nuovamente nel suo grembo, al riparo dalle leggi ingiuste della morte che, nelle nostre paure, tutto dovrebbero solo annichilire, senza riscatto alcuno. Quando l'immaginazione, in una mente rimasta ottenebrata dal lutto o dalla sterile apatia, smette di lavorare, la morte ha già dettato la sua venuta sugli altrimenti incustoditi prati della vita. Brigitte invece non rivide lo stesso bambino indifeso di un tempo, ma si accorse, da subito, di trovarsi di fronte ad un piccolo uomo, con una rinnovata voce gutturale, un busto formato, delle gambe ben più lunghe di quelle piccole e gracili che ricordava quando era venuto la prima volta nella sua casa. Notò le braccia magre ma longilinee e un'altezza che complessivamente superava la sua e per la quale avrebbe dovuto volgere la testa verso l'alto per incontrare quello sguardo divenuto così maturo, privo della primigenia ingenuità di tenero ed indifeso infante, un poco velato di tristezza per il probabile decorso degli eventi, ma non anche privato di nuovo fascino e rinnovata luce nella quale guardare il sopraggiunto nipote. Si accorse di individuare una sorta di bellezza nel ragazzo, quella forma di corresponsione dei piaceri che si prova per chi si pone al proprio pari in un eventuale dialogo o incontro e non solo come un probabile figlio che susciterebbe per contro, solo la necessarietà dell'aiuto e dell'assistenza ma non anche dell'armonia reciproca e ugualitaria. Si stupì di notare questa nuova verità, quando lo vide in mutande per la prima volta, mentre entrava in cucina per la colazione. Il sole brillava quella mattina di una infuocata primavera, irradiando la sua luce rivelatrice dalla finestra in cui aveva accidentalmente tirato le tende e il conseguente fulgore, tradiva il potere attrattivo di quel giovane corpo, unito alla condivisibile piacevolezza del viso, pur ancora assonnato. Del resto il ragazzo era cresciuto, erano passati svariati anni da quando lo aveva conosciuto la prima volta ed era chiaro che si sarebbe presentato in un'ottica nuova. Per questo non si sentì colpevole per ciò che avvertì, ma anzi sciocca per il fatto di percepire la sorpresa di ciò che era una inevitabile legge incorruttibile della natura nel miraggio del tempo. La magia dell'infanzia e dell'adolescenza è tale per cui un ciuffo sparuto di anni sia già sufficiente per modificare radicalmente le sembianze di una persona e tale per cui tutto corra molto più velocemente verso il rinnovamento continuo. Dopo una certa età tutto pare invece rallentarsi, quasi il tempo si fermasse, ma solo in ciò che riguarda i gusti e i sapori che rimangono ancorati alle chimere giovanili e all'illusorietà dei primigeni fermenti ludici. Quando il ragazzo partì quella mattina vestito elegantemente di tutto punto, dicendo di voler raggiungere il villaggio più vicino in cerca di un'occupazione perchè si sentiva "a disagio e inappropriato a rimanere lì a vivere alle spalle della sua pensione", la donna, ripresasi subito dallo stordimento dei precedenti pensieri, gli fece vedere una carta topografica della zona, spiegandogli quali fossero i villaggi più popolosi nelle vicinanze. Gli disse che non c'era bisogno che si preoccupasse di trovarsi un lavoro e che avrebbe potuto rimanere quanto voleva, mentre gli preparò una sostanziosa colazione a base di uova, caffè e prosciutto. Lui rispose che non se la sentiva di approfittare della sua gentilezza, la ringraziò, la baciò sulla guancia, avvertendone l'inebriante effluvio nell'aria e se ne andò. Quando chiuse la porta dietro di sè, Brigitte sentì come il bisogno di andare alla finestra del soggiorno per guardare fuori. Lo vide allontanarsi sempre più nel sentiero, in cerca di una speranza che probabilmente non avrebbe esaudito. Si accorse di dispiacersi per questo e se ne stupì. Quella mattina, rimasta ancora sola in casa, ebbe poi un sentimento contrastante con quella precedente afflizione. La nuova contrapposizione la condusse a pregare dentro di sè che il ragazzo non trovasse invece occupazione alcuna e questo per la paura che si sistemasse nel prossimo futuro in qualche altra dimora, abbandonandola nuovamente alla immancabile solitudine. Si rassicurò poi del fatto che quegli splendidi paesaggi di montagna, avevano, nel loro candore paradisiaco, l'unico difetto di non garantire di certo un lavoro che non fosse l'accudire il proprio giardino o le bestie da pascolo. Tornata la tranquillità per quel rasserenante alibi, si stese sul divano, pensò alle mutande del nipote, alla sagoma del pene un poco eretto del giovane e si masturbò avidamente raggiungendo presto l'orgasmo. Si spaventò del suo stesso gesto, ma non si interrogò, non inquisì la propria azione, non si fece domande sui propri desideri. Le manifestazioni più audaci e talvolta grottesche dei propri appetiti sessuali, non incontrano ostacolo morale, pudore nè pentimento, se vengono vissuti nella loro naturalezza, conformandoli alla loro occasione più consona, senza interrogarsi su di essi. La domanda che potrebbe affliggere una mente educata agli assiomi circostanziali è se può essere consono il fatto di provare attrazione per un consanguineo e per di più molto più giovane, ma la questione che ora affligge il mio essere narratore esterno, non disturbò invece la mia protagonista, non a tal punto almeno da indispettirla con lucide e fuorvianti elucubrazioni filosofiche sull'essere, tali da annichilirne quindi l'istinto. Quando il ragazzo tornò alla fine di quella giornata, stanco e sopraffatto dallo scoraggiamento di vedersi negare la speranza di un lavoro, lei lo guardò negli occhi, come nulla fosse successo, lo ristorò con un buon pasto e un buon vino, guardò la televisione di fianco a lui, gli augurò la buona notte. Gli disse di non preoccuparsi, che la sua pensione sarebbe bastata anche per due e che si sarebbe presa cura di lui. Alla quarta notte, gli chiese di dormire con lei nel letto matrimoniale, nel posto lasciato incustodito dal defunto marito. Lo convinse con argomentazioni fantastiche, dicendo che si sentiva sola, che aveva paura dei suoi stessi incubi. Non dovette affaticarsi tanto per trovare delle giustificazioni alla sua richiesta poichè il ragazzo, preso come da una sorta di servilismo, dettato dallo scrupolo conseguente al senso di colpevolezza nato dal farsi mantenere senza portare denaro in casa, era sempre pronto ad accettare qualsiasi condizione di sopravvivenza, alternativamente alla quale, temeva di trovarsi nel mezzo di una strada. Quella notte lei dormì abbracciata al nipote. Lui rimase steso senza muoversi, rivolto con lo sguardo verso il lampadario della camera, come per paura di svegliare la zia, muovendola da quella posizione così curiosa. Riflettè sulla sua condizione. Non si chiese il perchè delle eccessive attenzioni della donna nei suoi riguardi. Pensò che era la sorella della propria madre e questo la faceva sentire più vicina. Argomentò nel silenzio dei propri dubbi notturni, che avrebbe dovuto accettare qualsiasi stravaganza della anziana parente. Quando la gamba di questa strisciò forse accidentalmente sul pene del ragazzo coperto solo da una sottile mutanda, visto il caldo primaverile di quella notte, lui ebbe un'erezione. Un poco si vergognò del fatto. Si convinse poi che la donna stesse solo dormendo e che non se ne sarebbe accorta. Non se ne preoccupò quindi più di tanto e quando la lieve eccitazione si calmò, si addormentò anch'egli tra le braccia della donna. I giorni successivi notò che gli sguardi della zia erano sempre più incisivi, come a voler scrutare ogni pensiero, le domande sempre più frequenti. Una mattina lasciò pure la porta del bagno distrattamente socchiusa, pensando che fosse uscita e si masturbò di fronte allo specchio. Vide ad un tratto nel riflesso di questo, un occhio che lo guardava dalla fessura lasciata aperta. Nel momento si arrestò subito e si sentì rapito da una sorta di panico. Poi però quando raggiunse la donna in cucina mentre preparava il pranzo, per verificarne lo stato d'animo, la vide sorridente e si rassicurò. Percepiva qualcosa come di eccessivamente femminile nella zia, di quella femminilità che è tipica ancora delle età sessualmente floride e che coincide con l'impudicizia. Per una strana causa si sentiva sempre più intimamente legato a lei e si convinse che il senso di vergogna e pudore avrebbe solo cementato un inutile muro tra i due. Lei lo guardava spesso. Anche lui la guardava in quella sua vestaglia mattutina a fiori come la carta da parati e profumata di gelsomino. In fondo anch'egli si trovava in una forzata condizione di astinenza tra quelle montagne pudiche e desolate che ombreggiavano castità sui boschi selvaggi e sulle casupole diradate, lontano dall'umana perdizione, portatrice unicamente di peccato ed effimere delizie. Alla sua giovane età, aveva bisogno di contatti perpetui con l'altro sesso. La zia si preoccupò invece di limitare al massimo le sue uscite e frequentazioni con le giovani del villaggio, a tal punto da uscire al posto suo per fare la spesa o per recarsi a comprare le medicine. Sembrava che tentasse di allontanarlo anche dal contatto con le proprie figlie, le quali telefonavano spesso per avere notizie della madre. Una sera lei preparò una cena perfetta in ogni dettaglio. Comprò del pesce, che non era facile trovare in paese. Lui capì che era andata sino in città per trovarlo, percorrendo svariate miglia. Lo inondò pure con dell'ottimo champagne. La cosa più curiosa non era tanto la selezione delle pur ricercate pietanze, ma la eccessiva accuratezza estetica con cui scelse le tovaglie, le posate, i candelabri, l'abbinamento dei colori per trattarsi di una cena da sola o con il proprio nipote. Capì che aveva acquistato anche le posate per quell'occasione o che le aveva ritirate fuori dall'epoca in cui civettava ancora col marito. Tutto odorava di malizia ed erotismo, più che di innocente devozione all'estetismo o senso artistico della superflua minuzia e del dettaglio non proprio culinario. E quel suo profumo sempre addosso, lo valutò come eccessivo per giustificare una mera vanità o ricerca del piacersi o per una futile sorta di formale educazione nei confronti di un ospite ed eppure per giustificare una semplice paura di trovarsi a disagio al cospetto di un giudizio esterno. Poi lei sfiorò col piede la sua gamba senza chiedergli scusa per il gesto ... e lui capì. O meglio si lasciò andare anch'egli, infiammato dallo champagne e dalla castità forzata. Scaraventarono le posate per terra, sventolando la tovaglia come fosse il fazzoletto di fronte al toro inferocito nella corrida e l'impeto reciproco gettò la legge dell'insania su di loro. Lui la penetrò svariate volte sul tavolo con estrema veemenza, facendole sbattere la testa contro lo sportello del frigorifero. Lei non sentì dolore ma solo piacere che si liberava dopo anni di frustrazione. Lui sfogò sul corpo consanguineo della zia, la sua ira giovanile avida di piacere e di esperienza. Poi si ricomposero. I loro sguardi non si incrociarono quella sera, come per una sorta di vergogna. Dormirono ancora insieme quella notte. Il giorno dopo fecero finta di nulla, non si interrogarono sull'accaduto ma lo assimilarono saggiamente come fisiologico alla forzata convivenza. Non si domandarono alcunchè nelle segrete stanze della propria intimità. I giorni passarono felici. Una settimana dopo riebbero un altro rapporto sessuale. Questa volta in camera, sul letto matrimoniale. Fu tutto più tradizionale e conforme rispetto alla veemenza e alla stravaganza della prima volta. Non si chiesero perchè ciò avvenisse ancora. Lui smise di cercare lavoro ma lei non di osservarlo e desiderarlo. Un giorno Jacques incontrò le proprie cugine in occasione di una loro visita e riconobbe nel loro sguardo, quello della loro madre. Erano le uniche giovani ragazze, poco più che coetanee, che gli capitò di vedere dal giorno del suo arrivo. Chiese cortesemente di potersi dissociare un attimo dall'aperitivo. Andò in bagno e si masturbò. Le cugine non immaginarono neanche quello che stava facendo. Non vedevano molto di buon occhio quella convivenza forzata; temevano che il ragazzo si sarebbe approfittato della eccessiva cortesia della madre. Loro non sapevano cosa stava accadendo in quella casa. L'incesto è un tabù e come tale non può essere capito nè tantomeno condiviso o anche solo rispettato fino a quando non ci si rivede protagonisti della sua pratica, ma questo vale per ogni peccato umano. Le fecero notare l'eccessiva durata del tempo trascorso dal momento dell'arrivo del ragazzo senza ancora aver trovato un'occupazione, ma lei le zittì alzando la voce, le accusò di egoismo, le mandò via di casa in malo modo. Col passare del tempo il rapporto tra i due conviventi divenne sempre più solido e anche il ragazzo si legò indissolubilmente alla zia. Faticava sempre più a immaginare una vita senza l'apporto umano della donna e la mancanza di esperienze amorose pregresse, data anche dalla giovane età, lo sollevava dal fardello di un confronto. Non sapeva neanche come sarebbe stato un rapporto con una propria coetanea e con l'avanzare di quel segreto e inaspettato rapporto, se ne preoccupò sempre meno. Quella eccentricità profumata di bizzarria, era diventata la sua normalità e non si chiese perchè il destino gli avesse riservato un decorso così innaturale degli eventi. Quando i suoi dubbi lo tormentavano, riconsegnava il pensiero all'alternativa e, preso da un rinnovato spavento, si riaccasciava nel sicuro rifugio dell'incesto. Un giorno lei scoprì di essere malata e lui le stette vicino, cominciò a fare la spesa per lei e si preoccupò di andare a prendere le medicine in paese ogni mattina. Consultava spesso il medico, preparava la cena, puliva le stanze a fronte della crescente impotenza degenerativa della zia. Non ebbero più rapporti ma lui stava spesso di fianco al letto, tenendole la mano. La baciava sulla guancia, sussurrandole parole dolci e di speranza. La rasserenava. La malattia di Brigitte ebbe un decorso molto lungo e graduale, permettendole di vivere ancora a lungo ma un'esistenza imprigionata nel letto e nel corso della quale Jacques divenne adulto e maggiormente responsabile. Un giorno poi, inevitabile, la donna spirò nel letto su cui si era consumato, ed era cresciuto, come fosse un mostro, il loro reciproco peccato. Il dolore per l'accaduto ebbe un impatto immane sul ragazzo ma non c'era troppo tempo per restare a disperarsi improduttivamente. Dovette presto preparare il funerale con le cugine, che incontrò nuovamente solo dopo quel giorno in cui furono cacciate dalla madre. Lui si rassegnò al fatto che ora avrebbe dovuto andarsene da quella casa in cui custodiva il suo segreto, in cui la sua giovinezza era tramutata in età adulta, nutrendosi di un'esperienza macchiata di perversione, nelle redini di un amore illecito, consumato nelle segrete stanze di una dimora che avrebbe abbandonato, con le sue facezie non dette. Fu inaspettatamente chiamato dal notaio quando stava ancora preparando le valigie, per andarsene senza sapere dove. Quando entrò nello studio del funzionario, incontrò le cugine, irritate e sospettose per la sua presenza. L'incaricato lesse un testamento scritto dalla defunta donna e della cui esistenza, le figlie vennero a conoscenza solo in quel momento. Il volere scritto della madre aveva lasciato l'eredità della casa tra le montagne e di tutti i risparmi di una vita, unicamente al nipote. Le donne sfogarono la loro rabbia contro il beneficiario, annunciarono causa, lo maledirono e se la presero anche col funzionario. Jacques uscì dallo studio tra le urla isteriche delle donne con un sorriso beffardo e tornò nella piccola casa che, tra le omertose montagne, celava il suo segreto. Visse felice tra le sue mura. Coltivò l'orto di fronte alla terrazza con costanza e dedizione, diede da mangiare premurosamente alle bestie, commerciò i prodotti del suo giardino nel mercato settimanale del paese. A chi gli parlava nostalgicamente della defunta o a chi piagnucolava per la sua scomparsa in sua presenza, lui lo liquidava con una pacca sulla spalla, asserendo che la morte è inevitabile ma è la vita a essere inaspettata e talvolta imprevedibile.


Emmanuel Gravier Menchetti.




mercoledì 12 febbraio 2014

"LA MALEDIZIONE" - MIO RACCONTO

Caro Alberto, ho chiesto di farti recapitare a mano questa lettera, pretendendo di tenerti all'oscuro dell'indirizzo ma soprattutto del tipo di posto in cui ora mi trovo e da cui ti sto scrivendo, perchè altrimenti potresti già capire tutto o non darmi credito su ciò che sto per comunicarti. Ti anticipo che non mi trovo in casa, no ... non mi trovo nella mia casa divenuta così vuota, dove i miei passi per le scale e persino gli incubi e i pensieri sembrano echeggiare tra le sue mura distanti. Tu sai cosa è capitato nell'ultimo anno della mia triste e ormai solitaria esistenza. Nell'arco di questo infimo lasso di tempo dalla morte di mia madre per cancro, episodio che, già di per sè, modificò drasticamente la mia vita, ti ricordo che morì anche mio fratello solo quattro mesi dopo in un incidente stradale e dopo otto mesi pure mio padre e nello stesso scellerato e malaugurato modo. Ricorderai certamente che ti parlai già in occasione dell'incidente di mio fratello, di una maledizione che incombeva, spietata, sulla mia famiglia; so che ricordi i miei timori, la mia paura che sarei stato io il prossimo della lista a morire, magari della stessa morte violenta. Dicevi che ero divenuto ossessivo e ipocondriaco ma poi, in seguito alla morte anche di mio padre, ti chiudesti nel silenzio dell'imbarazzo, forse perchè anche tu cominciasti, nelle segrete stanze del tuo pensiero non meno perverso del mio, a convincerti che avevo ragione. Si ... lo so cosa stai pensando, che ora sono l'unico erede e dovrei scrollarmi di dosso certe folli superstizioni e godermi il sudore dell'impero finanziario di mio padre anzichè farmi prendere da ossessioni e paranoie. Non ci riesco. Sento sempre rumori in questa casa come di passi felpati o di oggetti che si muovono, li sento di notte quando il mio sonno è interrotto da quel sottile strato ancor quasi onirico di comprensione che è la veglia perpetua di chi soffre di incubi continui. Li sento mentre suono il pianoforte solo in camera, nelle pause tra un accordo e l'altro. Li odo mentre creo le mie sculture mostruose di esseri improbabili forse sognati o solo temuti e mentre dipingo oscuri abissi marini dimenticati dal tempo e dalla conoscenza umana, nei visionari frangenti in cui il mio pennello danza ammiccando con i colori bluastri sulla tela, deridendomi del mio terrore. Loro, i rumori, sono sempre con me, sono ormai gli unici compagni a non lasciarmi mai solo. Colgo anche l'occasione per ringraziarti di esserti offerto di aiutarmi economicamente e nelle faccende di casa, conoscendo quanto sono maldestro anche solo nel cuocermi un uovo, ma sai, mio padre aveva lasciato un bel gruzzoletto di sessantamila euro nel mio conto poco prima di morire; lo aveva fatto perchè, come sai, la sua azienda era fallita e le banche gli stavano col fiato sul collo, annaspando come iene su tutto ciò che fosse intestato a lui, manco fosse una carogna da spolpare ed è con quei soldi che, oltre a pagare il suo funerale, pago una donna ucraina per tutte le faccende domestiche, una simpatica ragazza che già conosce bene la casa, dato che fu assunta subito dopo la morte terribile di mia madre. Non sa nulla dei rumori perchè quando c'è lei quelle maledette presenze se ne vanno, tanto perseguitano solo me. Ho anche tentato di parlarle di quello che succede in questa casa quando non c'è, ma lei mi deride con quella sua risatina ingenua con cui sembra voler risolvere e spazzare via tutto così come rimuove la polvere dagli scaffali, con quella sua squallida quotidianità, con quella lucida routine priva di fantasia, tipica delle lavandaie e di tutti i lavori manuali svolti per necessità economiche che disconoscono il fascino delle cose misteriose e macabre di chi, come me, ha invece avuto il tempo e la facoltà di concepire. La percezione dell'immane impatto delle umani tragedie, del naturale ma scellerato decorso del destino non è cosa che possa essere contemplata nelle piccole menti addomesticate dalla necessità di sopravvivenza. Il reale dolore è destinato solo ai nobili, ma anche ai piccoli borghesi come me, purchè l'agiatezza economica ci sollevi da problemi di infima sopravvivenza per lasciarci il tempo da dedicare alla letteratura, alla riflessione, alla lettura filosofica delle cose e degli eventi. Il lutto e per di più intriso di sventurato malocchio, ha colpito, come sai, la mia famiglia e sai anche che vorrei andarmene da questo paese, vendere quella casa maledetta e fuggire via, lasciandomi alle spalle quei rumori di passi che ticchettano nel mio cervello, torturandone il sonno e i ricordi di cui è pregno ogni angolo di questo ormai vuoto edificio, ma non posso andarmene, non più e per un motivo che scoprirai se avrai la pazienza di arrivare alla fine di questa lettera. Le case parlano, racchiudono lo spirito di chi ci ha vissuto e questo spirito ancora ci vive dentro, specie quando le persone sono perite di morte violenta. Se avessi potuto vendere la casa e andarmene per sempre, un nuovo inquilino forse avrebbe potuto viverci allegramente, trapiantandovi una nuova famiglia, libera dalla maledizione che invece è gravata sulla mia. Avrebbe potuto viverci senza neanche accorgersi del suono di quei passi o dello spostamento degli oggetti, magari perchè distratto dal rumore stesso di un nucleo di più persone, mentre io, solo, nel mio silenzio, devo subire consapevolmente il macabro incanto di queste presenze, che chiamano solo me al loro cospetto, che amano farsi corteggiare solo dalla mia attenzione eccitata. Perchè allora non vendo tutto e me ne vado via?.... perchè non fuggo in Thailandia o in Brasile o in Nepal o in qualsiasi altra meta esotica dove potrei comprare più case e vivere di rendita, utilizzandone una per abitarci e le altre per affittarle?! .... che mente umile che sei, credi che non ci abbia già pensato? ... non posso, è quello che sto tentando di dirti. No... so cosa stai pensando, che ti dico questo perchè mi sono convinto che tanto la maledizione mi seguirebbe ovunque. Certo, mi sta seguendo in qualsiasi dimensione spazio temporale ma questa mia convinzione pare che sia la causa stessa per cui ora mi trovo qui. Non sai dove mi trovo? .... mi trovo in un ospedale psichiatrico dove dovrò finire i miei giorni perchè lo psichiatra che mi sta seguendo e il giudice che qui mi ha mandato, sono assolutamente convinti che sia stato io a uccidere mio fratello e poi mio padre. Ti chiederai come sia possibile dato che sono morti in un incidente stradale. Beh.. dall'autopsia risulta che entrambe avessero ingerito un veleno che, nel giro di pochi minuti, porterebbe ad uno stato catalettico e che io avrei fatto bere ad entrambe sciogliendolo nel loro fatale bicchiere d'acqua, poco prima che uscissero di casa per guidare l'auto, in modo da far sembrare che la morte incombesse per un incidente stradale mentre in realtà le loro auto si schiantarono con già un cadavere al volante! Le autopsie furono predisposte in quanto non era chiaro perchè in entrambe i casi non risultassero segni di frenata sull'asfalto e poi notarono tracce di questo veleno già nel sangue di mio fratello; all'epoca ebbero già dei sospetti su di me poi quando trovarono le stesse tracce sul corpo di mio padre non ebbero più dubbi. E la storia della maledizione? Ho provato a spiegarlo ma non mi credono, o meglio, non è che non credono alle mie parole, ma non si fidano della sanità della mia mente ed è il motivo per cui ora mi trovo rinchiuso qua dentro. Se ti faccio leggere il rapporto che lo psichiatra ha consegnato al giudice ti verrà da ridere sulle mie sventure. Te lo avevo detto che la maledizione mi sta perseguitando. Lo psichiatra sostiene che io soffra di una doppia personalità, una fredda e lucida ed è quella che ha architettato i due omicidi travestiti da finti incidenti per ottenere l'eredità, e l'altra, forse quella che ti sta scrivendo ora, assolutamente ignara della sua stessa esistenza e, allo stesso tempo, vittima della mia altra metà assassina e convinta che il macabro susseguirsi degli eventi sia da addebitarsi, appunto, alla maledizione di cui ti ho sempre parlato, come se questa mia parte ingenua non si ricordasse di quello che io stesso ho fatto, come se tra le mie due metà ci fosse un confine netto di memoria in cui i pensieri non si miscelano, non conoscono osmosi, rimanendo invece distinti come l'acqua a contatto con una macchia d'olio. E' tutto così assurdo. Non so neppure se mi permetteranno di recapitarti questa missiva. La maledizione, come vedi, ha colpito anche me, non lo ha fatto con la morte atroce dei miei consanguinei ma con il metodo più sottile e pungente della tortura psicologica, dell'infamia, dell'accusa, relegandomi a questo ospedale di matti, rinchiudendomi in questa strana prigione in cui l'intelligenza viene chiamata follia e la verità delirio ed in cui temo che rimarrò rinchiuso per il resto dei miei tristi e solitari giorni.

Emmanuel Gravier Menchetti.