sabato 4 febbraio 2017

IL SUADENTE SENSO DEL CONTROSENSO (nuovo racconto ...)

Nulla è più affascinante, attraente, pacatamente indesiderabile ma, proprio per questo, eternamente avvenente, come il contrario della logica. Quanto scialbo e insipido è il consueto, l'usuale, ciò che mantiene la propria forma indissolubilmente, pur di fronte ai continui mutamenti del cosmo. La stessa terra trema, le croste si muovono innalzando montagne, creando nuovi dirupi, distribuendo inaspettate pendenze, nell'eterna rotazione terrestre che mai troverà fine nel nulla del cosmo e per qual motivo allora la mente umana, reclusa nell'infinitesima galassia asservita alla vastità incalcolabile dell'universo, dovrebbe comportarsi in modo stabile ed immutato, se tutto attorno a noi si muove? Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma e le nuove vite nascono dalla morte delle preesistenti, la fine delle relazioni dal dinamismo dei sentimenti e dei riguardi reciproci, la fragranza della novità si genera dallo sperma stantio del tedio, che ci guida verso il cambiamento della rotta di una nave che è la fragile esistenza umana, nella perpetua burrasca dell'ambiente circostante. Quale imbarcazione potrebbe assurgere alla folle utopia di rimanere immobile in una tempesta in mare? I sentimenti umani sono talmente teneri, moralmente ineccepibili, formalmente squisiti, che meriterebbero di sopravvivere nell'eterna immobilità, pur di fronte al passaggio del tempo e all'incedere delle malattie e della decrepitezza senile. Ciò che invece ne scuote il sentore sino a farlo vibrare dal fulcro dell'essenza, gettandone la sindone della fine sul primigenio abbaglio, è l'incoerenza della mente umana, che fa danzare il suo gioco di colori nel corso della vita, seguendo una rotta che somiglia a quel mistero così antitetico dal consueto, prostrando inevitabilmente l'innamorato al cospetto dell'abbandono, e le effusioni ai ricordi. Il magma dell'inconscio, che si riappropria del caos nel fulcro della terra, restituisce vivacità ai comportamenti umani, asservendoli al fascino suadente ma lascivo dell'imprevisto e del contrapposto, nel quale taglio di confine e rottura, il desiderio si infiamma poiché sono le nostre stesse emozioni a bramare il contrasto, l'auspicabile piacere della tragedia, del disastro, del lutto incontrastabile che pone fine all'inesorabile tedio della circostanza. Qual piacere nel rompere tutto ciò che nella vita abbiamo costruito, per la quale ci siamo sacrificati; quale appagamento nel demolire ciò che a noi sta proprio più a cuore, nell'allontanare il bello che più ci piace, il sogno più desiderabile ed ucciderlo proprio in quanto tale. Che sottile godimento nell'affondare il piacere che più ci appagava per rincominciare un nuovo percorso, come in una eterna sfida con noi stessi, nel caotico ed informe disordine del cosmo, in cui nulla ha un inizio né fine. Tanto più auspico tranquillità e limpidezza di aspettative, tanto più getto la mia vita nel sottile e trasgressivo tremore orgasmico del disordine di una babele inconfessabilmente attraente. Sino a ieri avevo un lavoro, un impiego stabile, in cui mi sono costruito una posizione di rispetto nell'organigramma aziendale, raggiungendo vette suscettibili di fiducia e stima da parte dei miei superiori che mi sottrassero alla disperazione della disoccupazione cronica e della povertà senza dignità. Raggiunsi quegli auspicati traguardi inaspettati con onestà e fatica, lungi dall'arrivismo, ma con la paziente compartecipazione e la costante dedizione al lavoro impiegatizio del servo più  diligente. Oggi che potevo cominciare a cogliere i frutti di tutti questi sacrifici, ho deciso di abbandonarmi alla segreta gioia dell'annientamento, dell'annichilimento totale da cui è partita la graduale tragedia della fine della mia stessa vita. Mentre il mio superiore mi dettava una lettera da dattilografare al suo miglior cliente, io sentii, per la prima volta, il desiderio incontrollabile di modificare il dettato ricevuto, scrivendo scemenze nella missiva. Fui sconvolto dalla novità di quelle sensazioni e non decisi deliberatamente di dare loro vita, furono loro a rapire il mio controllo e a tessere le nuove trame del mio destino. Fu così che, in preda ad una risata isterica che non riuscivo a trattenere, pur non celando preoccupazione di fronte a ciò che stava in me succedendo, sogghignai al mio superiore, proprio allo stesso uomo che mi aveva salvato dall'incipiente precarietà lavorativa dei mei preesistenti impieghi saltuari, e lo feci scaraventando la macchina da scrivere per terra. In preda poi ad una sghignazzata diabolica e irresistibile, non riuscii a contenermi dal dirgli di andare a farsi fottere senza un motivo, per il solo piacere che doveva fottersi ed andarsene. Quando osservai poi la lettera di licenziamento che mi fu recapitata sotto agli occhi il mattino seguente, accartocciandola con la forza della disperazione, capii che quelle parole mi erano state dettate dal Diavolo in persona, non potevano essere mie, fatta salva l'unica remota ipotesi in cui la mia mente si fosse gettata da sola, incomprensibilmente, nella pazzia più dissennata. Crollai in un pianto isterico, promettendomi di rimettere al più presto ordine a ciò che io stesso avevo distrutto, cominciando dalla mia mente, ormai, con evidenza, giunta ad un piano di malaugurato degrado. Poi mia moglie entrò nella stanza e mi abbracciò, la mia altra metà psichica che avevo sempre amato in vita sin dalla tenera età e con la quale avevo seminato imperterrito un rapporto sublime e auspicabile, nella perpetua inconsistenza dei fallimenti umani, e la donna alla quale avevo appena raccontato, mentendo, di aver subito un licenziamento ingiusto e immotivato. A quella amorevole stretta tra le sue braccia, alle sue carezzevoli lacrime che infradiciavano pure il mio viso, in cui espletava tutto il suo compiacimento al mio dolore e tutta la sua mortificazione  conseguente alla tragedia dell'incompreso e inaspettato, sentii ad un tratto il desiderio irresistibile di sottrarmi. Cominciai allora a deriderla, accusandola di aver creduto ad una balla che le avevo detto. Non riuscii a trattenermi dalla demoniaca tentazione di confessarle la reale dinamica dell'evento miserabile che aveva portato al mio licenziamento, e lo feci senza riuscire a vincere quello stesso appetito nefasto. Fu allora che le raccontai la verità di quello che era successo e quando la vidi impietrita, teneramente sgomenta di fronte alle mie incompatibili confessioni, mi misi a ridere come un pazzo maledicendola e urlandole che era solo una sciagurata meretrice opportunista, che mi aveva sposato solo perché il mio lavoro stabile e ben remunerato le avrebbe garantito la sicurezza economica per una prole che, fortunatamente, sino a quel momento non era stata ancora concepita. Le dissi, insomma, esattamente ciò che sapevo non essere vero, perché mai nessuna donna mi amò di un amore puro quale quello che provava la stessa persona che ora stavo insultando. Sapevo che mi aveva amato sin da quando ero un collegiale scapestrato, dedito solo allo spasso e all'ozio, per poi starmi ancora vicino quando disperavo per la mia disoccupazione ormai cronicizzata, tra un impiego precario e l'altro. Sapevo benissimo che non meritava questo trattamento ma mi resi conto che ciò era esattamente l'unico vero motivo per cui l'avevo invece messo in atto. Quando il prete della mia parrocchia, quell'uomo così sempre cordiale, amorevole verso il prossimo, costantemente generoso di quella squisita filantropia verso i meno abbienti e bisognosi, venne a sapere del divorzio che aveva così macchiato la mia vita sentimentale, suonò a quella che ormai non era più la mia porta ma solo l'ingresso della casa di mia suocera a me divenuta improvvisamente estranea, e dalla quale dovevo andarmene al più presto. Lo feci entrare, lo pregai di accomodarsi, gli servii un caffè. Lo guardai poi dritto negli occhi e gli raccontai la verità. Gli dissi che il Demonio mi aveva rapito, deteneva le redini delle mie scelte, delle mie emozioni, facendomi demolire tutto ciò a cui più tenevo. Quell'uomo così nobile d'animo e compassionevole, mi disse che il Diavolo era la tentazione e dovevo farmi aiutare da lui a scacciarlo, dovevo pregare e riavvicinarmi a Dio per ritrovare la strada della salvezza e ritornare ad avere il controllo delle mie azioni. Non mi parlò di pazzia ma solo di lotta tra bene e male, tra il Dio creatore e il suo angelo ribelle, il quale assoldava altre anime eversive e ingannevoli, in una lotta contro l'armonia del creato, trascinandole segretamente in un processo di dissoluzione che avrebbe portato alla solitudine e alla morte, come per vendicarsi  sulle stesse creature divine, arrecando loro il medesimo stato di abbandono in cui Dio lo aveva gettato. Io ad un tratto scoppiai in una risata fragorosa e gli urlai che era un emerito idiota. Scoprii quello stesso giorno i contorni del suo viso quando era deluso e orrendamente reso impotente. Mi inorgoglii segretamente di me stesso, al pensiero che ero riuscito a gettare un'ombra di malessere e rassegnazione in un animo così sempre ottimista e benevolo verso gli altri, così affamato di gioia e benessere. Mi imbarazzai di fronte all'autocompiacimento di aver gettato un velo di disperazione su quel volto così sempre fottutamente gioioso e contento. Per qual motivo doveva sempre illudersi di avere la chiave in mano per la cura di tutti i mali e per il raggiungimento della felicità, se poi questa era una condizione così chiaramente e barbaramente negata all'uomo?

... Stavo morendo di fame, seduto al freddo, mentre chiedevo la carità  per strada e nessuno più mi dava neppure un centesimo dopo che nel  mio villaggio, gira la voce che io sia un posseduto dal Demonio. Un'anziana signora però, con aria tenera, mi ha messo la sua mano ossuta sulla spalla ricurva dal peso del cordoglio, e mi ha sussurrato che se volevo un pasto caldo, potevo andare a casa sua e che se ne fregava delle dicerie della gente: "un umano sofferente si aiuta sempre" mi ha rassicurato. Questo è successo ieri. Quanto era carezzevole quella piccola vecchietta, quanta pietà nella sua voce e compassione nelle sue parole, quale tenerezza nel suo gesto.

Quale piacere irresistibile nel risponderle poi che non volevo essere ospitato nella casa di una vecchia puttana, utilizzando, per sfamarmi, le stesse posate infettate da una bocca che ha succhiato falli per più di settant'anni. Quanto mi sono divertito nel vedere il suo sguardo inorridito, mentre si metteva una mano sul cuore, in preda ad un infarto. Non chiamai aiuto e la lasciai morire davanti a me e di questo ora ne sono fiero, anche se ormai, nella cella in cui mi hanno rinchiuso, i crampi dello stomaco mi stanno torturando per la fame, poiché rifiuto pur il cibo dagli inservienti del penitenziario, insultandoli veemente con lo stesso perverso appagamento, ormai a me tristemente noto. La mia conseguente debolezza mi sta quindi trascinando via dalla vita, lasciando ai posteri solo questa confessione che, so già, rimarrà incompresa alle fragili e ridicole menti così convintamente avverse all'assurdo, ma sarà l'ultima inesplicabile spiegazione dei gesti che mi hanno condotto alla mia morente condizione.

Damien.


Emmanuel Gravier Menchetti.