venerdì 29 agosto 2014

recensione - "La storia del Black Metal" - : Burzum - "Filosofem" 1993/1996



Quando solitamente si parla del Conte Grishnackh, all'anagrafe Kristian (poi tramutato in Varg) Vikernes, in arte Burzum, ossia ciò che nel linguaggio Tolkiniano riporta l'immaginazione al buco nero che inghiotte la luce, all'oscurità che divora la vita, si solleva sempre una nuvola di scandali per via dei crimini di cui si è macchiato e per cui attualmente ha scontato la pena. Ricordiamo che il compositore polistrumentista norvegese di cui stiamo parlando, in quel di Bergen nei primi anni '90 creò un progetto che nella storia del black metal, risulta assolutamente seminale per tutto ciò che è venuto poi. Ancora oggi nel 2014 nascono progetti solisti da studio o vere e proprie band che ripudiano la disponibilità della tecnologia di studio pur a basso prezzo per rifarsi assolutamente a Burzum, copiandone dettami sia creativi che di suono, paradossalmente facendone una ricerca (per crearlo così anacronistico, casalingo e amatoriale) maggiore di quella che oggi un gruppo di ragazzi non professionisti (ognuno avente un proprio lavoro al di fuori della musica) dovrebbe fare per produrre una demo in maniera assolutamente perfetta, proprio data la disponibilità odierna di produrre in digitale in modo ineccepibile a prezzi sostenibili pur dal modestissimo contributo privato senza quindi etichette che possano essere definite tali, ossia quelle che sgancino il grano interamente, per intenderci. Affrontiamo subito il suo alone criminogeno ricordando che il soggetto in questione ha scontato una detenzione di 16 anni per l'omicidio del compagno/socio produttore Euronymous con cui suonò il basso nei Mayehm (posizione che gli fu offerta in cambio di una produzione negata per "problemi di soldi" a favore di un più economico LP quale fu poi Aske), ebbe in società un negozio di soli dischi metal estremi ossia l'Helvete ("Inferno" in norvegese) nel centro di Oslo (negozietto curioso che all'epoca era illuminato solo da candele e non aveva neanche l'allaccio elettrico!) e il cui (Euronymous) avrebbe dovuto produrre l'intero primo disco omonimo di Burzum, essendo titolare della piccola etichetta Deathlike Silence Productions, cosa che non fece perchè reinvestì le vendite di suddetto disco nel negozio medesimo per coprirne i buchi finanziari nonchè per produrre altri lavori (spinto anche dalla paura che l'astro nascente di Burzum potesse gettargli ombra sulla sua figura di primordine nella scena black norvegese) e il tutto all'insaputa dello stesso Vikernes. Fecero il resto gli incendi di alcune chiese cristiane, costruite su antiche dimore di culti pagani pre-giudaici, disastri uno dei quali portò anche alla morte di un pompiere e di cui venne riportata fieramente testimonianza pure nella copertina dello stesso Aske (non a caso significa "Ceneri") che mostra la fotografia di un edificio di cui sono rimasti in piedi solo gli assi portanti. E' chiaro che quindi, anche a seguito di sue dichiarazioni anticristiane e antisemite dal sapore filonazista, è difficile poter parlare liberamente della sua musica senza lasciarsi condizionare (in un verso o nell'altro) dalle sue malefatte. Dato che questo è un blog che tratta unicamente di arte, io qui voglio concentrarmi unicamente sulla sua musica, voglio parlare del Burzum musicista e non del Vikernes assassino o nazista. Veniamo al disco quindi, a questo lavoro registrato nel 1993 prima della prigionia ma pubblicato solo nel 1996 grazie alla Misanthropy Records della giornalista tedesca di origine italiana Tiziana Stupia che si preoccupò di aprire la nuova etichetta unicamente per non lasciare che le produzioni dell'artista Burzum soccombessero proprio alla prigionia di Varg. Partiamo dalla produzione: chitarra acquistata di terza mano nel 1987 e registrata con l'uso di un pedalino fuzz senza l'utilizzo di amplificatori ma direttamente collegata all'impianto hi-fi del fratello (!!!!!!!!!!!!!!), batteria di un amico registrata direttamente con un solo microfono garantito come "il peggiore e più economico che avesse trovato in un negozio", voce registrata con l'auricolare di una cuffia... insomma un disco estremo registrato in condizioni estreme!!! Eppure questo suono è stupendo da quanto fa schifo, è sublime da quanto non è curato, diventa fisico, ti sembra di toccarlo mentre ti sfonda i timpani da quanto è sporco, selvaggio, desolante e alienato, abbandonato a se stesso ed ha fatto scuola; oggi tantissimi blackster si ispirano a lui e alla ricerca di questa purezza di suono che in realtà fu solo accidia e mancanza di voglia di spendere soldi inutilmente. Una derivativa negligenza che si tramutò (per scelta o per fortuna) in una filosofia di suono e di produzione. Le composizioni? .... assolutamente minimali, ipnotiche, ripetitive ma quei riff maledetti di chitarra marcia come un cadavere all'ultimo stadio della decomposizione e quei motivetti melodici di massimo quattro note sulla tastierina-giocattolo, si imprigionano nel cervello dell'ascoltatore e non lo mollano più, lasciandosi sedurre in modo molto più intenso di decine di riff complicati ad alto tasso di tecnicismi incastonati in un unico pezzo (..vedi diversi gruppi della nuova scena technical brutal russa o asiatica o del brutal core americano) o assoli a decine di note al secondo su tastiere collegate alle più capienti plug in. La voce vomitata al limite della sopportazione da un disgraziato a cui pare che stiano estirpando gli organi da vivo esprime un malessere di esistere unico nel suo genere. Insomma mi pare di sottolineare che questo disco sulla carta (e solo sulla carta) abbia tutte le caratteristiche per essere liquidato come un abominio sonoro da dimenticare .... eppure è un disco seminale che ha fatto la storia di un genere adorato da milioni di fedeli in tutto il mondo (....e dal sottoscritto), entrato addirittura nelle classifiche nel Regno Unito, cosa impensabile per un disco black metal, quindi?... chi ha ragione in questo mondo di matti? come al solito capita nell'arte ... tutti e nessuno, o forse proprio i matti!

VOTO: 8

Emmanuel Gravier Menchetti.


martedì 26 agosto 2014

IL MONDO DIVERSO

Non conosco il motivo per cui ora sono qui a raccontarvi la mia esperienza. Ormai, nella comodità del mio divano di casa, tornato salvo nella mia tranquillità, lontano da mondi sconosciuti, diversi da quello della noiosa routine in cui sono tornato a vivere, non so neanche più se ciò che mi appresto a raccontarvi sia stato frutto di un sogno, di un'allucinazione ... o di una incredibile realtà, se fosse una verità fisica o solo mentale, vissuta unicamente nella mia immaginazione, probabilmente la prediletta chiave della conoscenza di un mondo altrimenti incomprensibile con il nostro intelletto. Qual'è il confine tra illusione e realtà se i miei sensi, tutti in armonico concerto, hanno comunque percepito visivamente e auditivamente una situazione che, per quanto pittoresca e sconcertante, sia stata ricostruita in un'immagine univoca e inequivocabile di sodomia degli equilibri, in un'esperienza inaccettabile di ordinato disordine? Perchè il definire un'immagine solo allucinazione dovrebbe tranquillizzarmi se quella visione mi ha comunque creato inquietudine e sconcerto al pari di una verità rigettata moralmente o traghettata dalla logica nella sfera delle assurdità? Quale la differenza tra una realtà fisica ed una mentale se comunque nella mia mente tale evento è stato vissuto come reale? Quale diversità ciò comporterebbe nella propria soggettività intellettuale? Non esiste un solo mondo ma tanti mondi quante sono le menti pensanti che lo osservano o lo immaginano per cui le peculiarità del creato sono forgiate dal solo occhio di chi le guarda e le sue qualità intrinseche vengono estrinsecate nell'interiorità di chi, osservandole, ne fa propria, ne ingerisce visivamente la sostanza. Dimenticavo, mi chiamo Robert, sono un inglese che viene dalla Cornovaglia e voglio raccontarvi della mia incredibile esperienza vissuta durante il mio soggiorno a Monaco di Baviera in un immenso parco nel corso di un pomeriggio soleggiato di ordinaria follia. L'ampio giardino alberato di cui vi parlo è il celebre Englischer Garten, situato in una zona centrale di questa splendida metropoli, a ridosso dell'Hofgarten, vicino al museo nazionale Bavarese delle armi rinascimentali e attraversato dall'oscuro fiume Isar. In quel giorno maledetto da tutti gli Dei, ero appena uscito da un ristorante nel centro, nei pressi di Marien Platz, quando, avendo ancora a disposizione diverse ore prima del mio treno per Francoforte e con la complicità di una calda giornata soleggiata, decisi di farmi una bella camminata nei parchi della città per ammazzare l'attesa. Appena entrai nel giardino, mi lasciai gradualmente digerire lungo i suoi sentieri ombreggiati dai suoi alberi così immensi, quasi fossero canali di un immenso stomaco di vegetazione sparsa a profusione, piante dagli alti fusti intrecciati e aggrovigliati tra loro come lunghi capelli nella testa di ciò che si definisce volgarmente "rasta", dai rami così rigogliosi da celare completamente alla vista un seppur qualche scorcio di città, torre, campanile o di lontano monumento cittadino nonchè di tutto ciò che fosse testimone della civiltà conosciuta e vi percepii subito qualcosa di strano, come se la luce di quel sole venisse oscurata da una scatola grigia senza uscita, un labirinto nel labirinto della vita, una dimensione parallela di caos nel caos della città fuori. Fiero e convinto del mio senso dell'orientamento, coadiuvato dalla lucida immagine che avevo mentalmente della posizione geografica in cui mi trovavo e di quella in cui vi era il mio albergo (vicino alla Hauptbahnhof ossia la stazione centrale), non mi feci impressionare troppo dalla primigenia sensazione di smarrimento e alienazione suscitatami dalle lunghe ombre di quei dinosauri di rami e foglie sopra la mia testa a celare il rischiarante cielo, e decisi di proseguire per il mio sentiero. Ad un tratto il suo tragitto cominciò però a perdere la sua linearità, iniziò ad impazzire danzando sotto ai miei piedi in curve mozzafiato prima verso destra, poi verso sinistra, poi ancora verso destra, poi lanciandosi in una vorticosa, ipnotica circonferenza attorno ad un albero le cui figure della corteccia, mi parvero, avvicinandomi gradualmente ad esso, tanti volti dalle sembianze umane, come fossero raccapriccianti maschere di un teatro. Trovai la visione molto divertente e mi convinsi di proseguire per il suo funambolico corso, convinto di poter sempre tornare indietro ripercorrendo semplicemente all'indietro il tragitto fatto, per uscire così esattamente da dove ero entrato; questa mia convinzione mi avrebbe ancora accompagnato per molto a rasserenare il mio animo se il sentiero che seguivo, oltre ad inerpicarsi in strani e incomprensibili vortici di caotico disagio che parevano divertirsi a driblare i tronchi degli alberi disseminati confusamente nel parco, non avesse cominciato improvvisamente pure a dividersi in ulteriori sentieri minori che ne echeggiavano il vorticoso tragitto, ereditandone e rimbalzandone, perpetuandone l'eclettico portamento in altrettanti cerchi di follia come fossero vene umane nella complessità organica di muscoli e tendini del corpo estraneo di un essere gigantesco del quale io ero diventato solo una molecola in esplorazione. La nuova diramazione che mi si era dipanata innanzi, mi costrinse a scegliere uno qualsiasi di questi nuovi sentieri figli, abbandonando così la strada maestra da cui provenivo. Il mio ricordo di aver percorso l'intero Hyde Park di Londra in diagonale da Marble Arch alla Royal Albert Hall, ossia da un angolo al suo opposto senza perdermi, mi tranquillizzò sulla primigenia impressione di smarrimento e mi convinse ad addentrarmi nella selva oscura scegliendo casualmente uno dei suoi percorsi. Questo parco era però decisamente molto più alberato e se non fosse per qualche timido segno di civiltà come un cestino o una panchina disseminata nell'oscurità annichilente delle ombre di quelli che ormai non mi parevano più alberi ma dinosauri di rami e foglie, sembrava di essere dentro una foresta selvaggia, distante anni luce dalla presenza umana su questo pianeta. L'esistenza di questi dinosauri verdi col volto fatto di foglie e le zampe e la coda mimetizzati in rami vorticosi, mi negava alla vista qualsiasi evoluzione di tutto ciò che stava fuori al parco e fu così che la mia bussola mentale ... cominciò ad impazzire. Una sporadica apertura sopra la testa mi riconsegnò un raggio di sole tra l'oscurità delle ombre nella notte eterna di quel giardino di angosce, ma la mia mente non ebbe neanche il tempo di rilassarsi e godere di quello scorcio di cielo azzurro, che la luce rasserenante dell'astro venne subito coperta da un enorme aereo, una umana nemesi al mio coraggio o alla mia irresponsabilità, che pareva volare a poche decine di metri sopra la mia testa tanto da gettare nuovamente la notte su tutto ciò che mi circondava e irradiando un rumore infernale come di motori impazziti che si riverberava tra le vene del gigante organismo che stavo percorrendo e tale da sentirne persino le vibrazioni nella terra sotto ai miei piedi, come si trattasse di un violento terremoto. Pensai ad un aereo che stesse per cadere vicino, un velivolo dirottato, percepii la stranezza di quella visione e mi convinsi che qualcosa non andava e solo un disastro imminente poteva costringerlo a volare ad un'altezza così proibitiva. Nulla appariva più riconoscibile, normale. Anche le cortecce degli alberi rincominciarono a mostrare volti umani. Mi avvicinai ad un tronco e vidi tante facce, come di vecchi barbuti, uno dei quali urlandomi con un volume che superava il boato dell'aereo poco sopra gli alberi, mi disse "se ti sei perso, segui l'aereo sopra la tua testa, sta per andare a schiantarsi proprio sulla stazione del treno!!" e ad un tratto i volti si misero tutti a ridere, sporgendosi ancora di più dalla corteccia dell'albero da cui parevano voler uscire e guardandosi tra di loro come in una complice combriccola di amici ubriachi. Preso dallo spavento mi misi a correre ma non sapevo dove. Corsi il più lontano possibile da quegli alberi parlanti, da quei volti che sembravano la materializzazione di tutto ciò che è più ignobile e grottesco, demenziale e corrotto in un mondo che dovrebbe solo essere onirico per conferire dignità alla nostra stessa esistenza. Sfinito dalla stanchezza e con il fiato corto, mi fermai e incontrai una vecchietta con al guinzaglio un cagnolino, che camminava con i piedi nudi (tenendo le scarpe nelle mani) in un sentiero di fango. Incoraggiato dal fatto di aver incontrato finalmente il primo essere umano dal mio ingresso nel parco degli orrori, le chiesi dove potesse trovarsi l'uscita più vicina e quale la direzione per la stazione. L'anziana signora, sino ad allora ricurva su se stessa, alzò allora lo sguardo ipnotico verso di me. I suoi occhi parevano infiniti cerchi concentrici dentro al cerchio dell'iride, ognuno di un colore contrastante col suo vicino. Cominciò a parlarmi in un tedesco incomprensibile, io la fermai e le dissi nella mia lingua che non conoscevo il tedesco e lei, dopo essersi un attimo fermata con un'espressione di assenso, come se avesse capito quello che le avevo detto ... continuò a parlarmi nella sua lingua! Mi sembrava di impazzire!! Forse ero già pazzo, ma lei continuava a parlarmi senza che io capissi una parola. Il mio intuito mi suggerì che mi stesse spiegando il perchè camminasse a piedi nudi nel fango, forse le era stato consigliato da un medico per le articolazioni, per la circolazione, non lo so ma guardando verso il basso vidi il mignolo di entrambe i piedi accavallato in alto verso le altre dita come se fosse completamente spezzato. Poi la vecchietta si mise a ridere in un modo gutturale, mostrando la sua dentatura marcia e il suo cagnolino cominciò a ringhiarmi e ad abbaiarmi rumorosamente mostrando dei denti affilatissimi e lucenti che fuoriuscivano dalla carne viva delle gengive che parevano gonfiarsi in bolle per poi esplodere in schizzi di sangue copiosi. Ormai in preda all'ansia più totale mi misi a correre lontano, sicuro del fatto che quel piccolo mostro ricurvo, impantanato nel fango con il suo piccolo ma terribile animale legato, non potesse seguirmi. La risata della vecchia strega fu presto riverberata da quella di tutte le statue attorno disseminate nel giardino, che cominciarono poi a spalancare le loro bocche sino a strappare le labbra scolpite in rinnovati cori di disarmonia, di una cacofonia che non dovrebbe essere la colonna sonora neppure dei peggiori incubi, che orecchie umane non dovrebbero mai udire perchè offenderebbero in note sconosciute ogni regola musicale, pure la più audace e controversa. Era tutto così assurdo, claustrofobico, un labirinto disordinato di follia nel labirinto della mia angoscia di paure che si smarrivano nella giungla dell'emotività eccitata. Trovai finalmente una piantina del parco con una freccia che indicava il punto in cui mi trovavo. La sensazione glaciale di paura che avevo provato sino a quel momento, mi gettò un attimo di ossigenante lucidità nella mente annebbiata dal torpore del panico e dello smarrimento, compiacendo la mia ricostruzione mentale del percorso fatto e della direzione che avrei dovuto seguire per uscire da quell'inferno di foglie, tronchi parlanti, aerei dirottati, persone alienate e cani mostrificati. Intrapresi una direzione tra quei sentieri impazziti, nella follia delle ombre anonime gettate nello spazio cupo e annichilente della notte nel giorno, da alberi giganteschi che, abbracciandosi tra loro e aggrovigliando reciprocamente i propri rami gli uni con gli altri, parevano amoreggiare tra loro in un'orgia infernale che stuprasse la verginità vegetale tramutandola in goliardia carnale, in modo tale da nascondere persino la più timida visione del cielo e fomentare dubbi anche solo sulla esistenza o meno di corpi nuvolosi sopra la mia testa. Mi pareva persino di udire i gemiti femminei, come di donne abbandonate al piacere, scaraventate dalla compostezza morale o ipocrita della civiltà nel carnaio assurdo di quel godimento selvaggio mentre rami di alberi penetravano le ombre negli anfratti resi tenebrosi dalle ombre di altri e mentre le statute continuavano a ridere di tutto ciò che vedevo attorno, forse anche di me. Dopo un'oretta di cammino verso quello che credevo fosse il mio sentiero verso l'uscita, ritrovai un'altra piantina. Osservandola attentamente ci misi diverso tempo prima di trovare la freccia che indicava il punto in cui mi trovavo proprio perchè quel punto era dalla parte opposta a quella in cui credevo di trovarmi. Pensai che o la mia mente provocata dall'emotività e dalla paura accecante, mi stesse giocando brutti scherzi, o le piantine erano truccate nel senso che qualche vagabondo per ammazzare la noia del tempo regalato dalla disoccupazione, si divertisse a cancellare con qualche artificio le frecce per disegnarne altre a caso, così da divertirsi a smarrire i malcapitati turisti. "Che idioti!!" pensai, convincendomi di quest'ultima ipotesi che rigettava l'idea della mia incipiente insanità mentale in favore di quella altrui. A quel punto mi convinsi di avvicinarmi al corso del fiume Isar, tenerlo ben sott'occhio e accompagnarne il tragitto percorrendo il viale che lo accostava lungo la sua riva, fino a quando sarei sfociato alla fine del parco o che fosse l'uscita nord o quella sud (più vicina al centro cittadino) ma che comunque mi restituisse al mondo della civiltà senza più alberi che gettassero ombra sulle mie certezze e nebbia sulle mie aspettative. Dopo aver accompagnato il corso del fiume per diverse centinaia di metri, qualcosa mi disse che forse stavo dirigendomi verso nord, allontanandomi ulteriormente dalla posizione del mio albergo. Ad un tratto ricordai di avere una piantina della città, la tirai fuori ma ovviamente non mi aiutò in alcun modo e altro non poteva fare dato che mi trovavo al centro di un manicomio di alberi di cui non conoscevo minimamente la posizione. Sapevo solo di trovarmi dentro quella che la mia piantina riportava come una grossa macchia verde al centro della città, uno specchio di natura selvaggia inghiottita dalla stessa civiltà, ma non sapevo in quale punto di quella "macchia" mi trovavo. Rassegnato ormai alla disperazione e sorpreso da un attacco d'ira contro il mio destino, gettai quella inutile piantina in un cestino, la cui bocca poi si chiuse prontamente sul mio gomito, stringendomi il braccio e divorandomelo mentre tentava di inghiottire tutto il mio corpo. Sferrai violenti calci contro il bidone fino a ribaltarlo per terra, liberando il mio braccio e correndo poi come un ossesso il più lontano possibile dal cestino carnivoro. Continuai a seguire il corso del fiume, quell'oscuro letto di acque verdi inaccessibili dal bosco e che però pareva essere il mio unico amico, il mio riferimento, la cui linearità riconsegnava ordine nella demenzialità e nell'ignominia dei disordinati sentieri del parco. Fu così che scelsi una sua direzione casuale e la percorsi sino allo sfinimento, convinto che o dal lato nord o da quello sud, mi avrebbe per forza di cose fatto uscire dal parco. La mia testardaggine mi premiò riconsegnandomi, dopo chilometri percorsi a ridosso del fiume, alla città e al suo ordine, cosa che poi mi permise di raggiungere, con l'aiuto di una rinnovata tranquillità a favore di una maggiore lucidità, facilmente l'albergo, riappropriarmi della mia valigia e prendere il treno sperato. Questo è quello che accadde in un folle pomeriggio di un giorno altrimenti normale di un piacevole soggiorno nella splendida capitale bavarese. Non so se quello che ho vissuto sia reale, frutto di un'allucinazione o il connubio di realtà e sogno, vita quotidiana e sua interpretazione soggettiva, ma ciò di cui sono sicuro è che non assumerò mai più sostanze psicotrope da uno sconosciuto in pieno pomeriggio, prima di addentrarmi in un grande parco di una immensa città che non conosco. La spavalderia talvolta lascia spazio alla perdita del controllo e la lucidità allo spasmo dell'angoscia, quando ci si addentra irresponsabilmente negli interminabili ed incomprensibili meandri del bosco ... forse solo della mente umana.


Emmanuel Gravier Menchetti.

domenica 3 agosto 2014

RACCONTO: "UN VERO AMORE E' PER SEMPRE !!"

Non poteva smettere di guardare quella foto. La teneva in mano lasciandola tremare per la forte emozione, quel miscuglio di ansietà e rassegnazione, cruccio e sofferenza struggente che lo attanagliava dalla morte di sua moglie. L'immagine di quella donna, eterna di fronte al corso degli eventi, resa immortale e libera dalla corruzione del tempo inesorabile, era l'unico ricordo che Peter manteneva dopo la sua tragica morte. Quel piccolo specchio di serenità, porta per riconvertire al remoto, passaggio per il mondo etereo e mentale dei ricordi, cominciava esso stesso a sbiadirsi col tempo, a perdere la vivacità dei colori e dei contrasti come la vitalità, le passioni e l'entusiasmo gradualmente abbandonano le menti ottenebrate con l'incipiente aridità della vecchiezza. L'inevitabile logoramento, il lento decadimento che intaccava pure gli oggetti al pari degli esseri viventi fino all'unico esito ultimo della morte universale che inghiotte parimenti il tutto e della fine imprescindibile, del nulla ineluttabile vissuto come naturale termine del ciclo di tutte le cose, cominciava a vincolare la mente di Peter ad un pensiero fisso, ad una monomania che si contorceva in una stanza circoncisa solo di ombre inviolabili, di tenebre invalicabili, di libertà interdette. Il suo amore così intenso, che per la sua grandezza e il suo onore avrebbe meritato, unico tra i misfatti e le azioni corrotte, di valicare i confini ineluttabili, inviolabili della morte, non poteva vivere solo in quella foto; aborriva di potersi compiacere solo di un ricordo suscitato da un'immagine non immune alla dissoluzione. Il suo amore aveva bisogno di ritornare al suo seme, all'origine che in principio lo scatenò, a quella fisicità che il passare del tempo discredita pur nelle coppie ancora in vita, celandola nell'abitudine, ossia quel cancro nascente che progressivamente ci adombra la mente solo di dubbi, distogliendo l'attenzione dal prologo generatore delle nostre scelte. Erano passati anni dalla scomparsa della donna che aveva tanto amato in vita e aveva continuato a ricordare fino ad ora. Lustri di solitudine e mero ricordo che non gli avevano più fatto vivere il presente, estirpandolo dalla cognizione del tempo, come se questo si fosse fermato dal momento luttuoso, come se il trapasso della compagna avesse distrutto un orologio interiore, arrestandolo all'ora stessa della morte. Quando un amore umano raggiunge vette invalicabili di intensità, sconfinando nel divino, allorchè l'umano sentire si tramuta nella sensitività di un essere capace solo di provare emozioni perfette, immuni alla corruzione, all'egoismo, all'interesse, questi amori non accettano neppure la fine ultima delle cose che la nostra educazione ci insegna, assoldandoci alla rassegnazione e convertendoci all'impotenza sin dalla nascita, ossia l'inevitabilità della morte. L'amore è vita e la vita si nutre perpetuamente di fisicità, di contatto epidermico che nel mondo animale dal quale proveniamo, genera l'unica legge di salvezza della specie, ossia il ciclo riproduttivo. Il vero amore merita di superare le incorruttibili leggi della morte che nessun uomo ha mai tentato di sopraffare prima e per lo stesso motivo per cui l'uomo medesimo, essere dotato di sensibilità e intelligenza, consapevolezza ma speranza, non merita di vedersi spegnere la vita di fronte a leggi naturali che lui stesso, abituato a comandare il mondo e a modificarne le regole, non ha chiesto nè mai avrebbe voluto, pur a costo di non nascere nemmeno. Ad un tratto la mente di Peter si svegliò dal torpore del lutto. Capì che la visione di quella fotografia non era un modo degno di reiterare il ricordo e di vivere ciò che la vita stessa gli aveva tolto. Concepì la rinnovata consapevolezza che in questo modo non stava forgiando perseveranza in quel rapporto stroncato, ma stava vivendo solo con il riflesso di sè stesso e della sua solitudine, che si rispecchiava in quella foto. In quell'immagine tremante a seguire il tremore delle sue mani, colse di non vedere più il volto dell'amata spirata, ma solo il riflesso della sua alienazione, come se stesse infierendo unicamente con il proprio dolore, come se nel mirarla, stesse contemplando il suo dolore in un autocompiacimento onanista. Più i ricordi si allontanavano dalla cognizione del fluttuante presente nell'inesorabilità del tempo che fugge senza prestare attenzione agli eventi e ai sentimenti, e più quelle stesse memorie si rendevano odiose perchè si accompagnavano alla consapevolezza della vanità del tutto. Fu allora che in un triste 17 novembre di un anno insulso che al lettore non interesserà sapere poichè non preclude l'avvicendarsi di questa storia, che Peter prese una decisione rivoluzionaria. Corteggiò l'idea di recarsi la notte stessa nel cimitero del proprio paese di campagna in cui era stata sepolta la sua amata e, sfruttando il completo isolamento del camposanto rispetto alle abitazioni più adiacenti oltre alla complicità dell'orario insospettabile, dissotterrarne il cadavere. Nel momento di munirsi di pala e di preparsi concretamente all'azione, calcolò di poter scavalcare facilmente il muro di recinzione della piccola necropoli con l'ausilio del cofano della propria auto che avrebbe utilizzato quale scala. Arrivato al principio del muricciolo di fianco alla chiesa nel pieno di una silenziosa notte senza stelle, fu felice di constatare che quel pittoresco gradino scelto quale strumento per introdursi tra le lapidi di chi perse i sogni vitali nell'annichilimento del trapasso, si rivelasse effettivamente efficace al proprio rinnovato scopo. Fu così che quindi scavalcò il muro non prima di lanciare la pala dall'altra parte del confine tra i vivi e gli imperituri dormienti, per recuperarla poi, una volta ridisceso lo sconfinamento con l'ausilio di una lapide posta, come di consueto, sul principio del muro medesimo, quando atterrò i propri piedi all'interno del giardino funebre costellato delle mortifere dimore. Accese la pila e si fece luce nel vicolo che lo portò al feretro di colei che ancora bramava. I rami cadenti degli alberi attorno, disseminati tra i loculi e i sepolcri dei borghesi come degli umili, proiettavano dalla luce della torcia, sagome di mani ossute sugli epitaffi, mani come di chi volesse abbracciare i defunti nella consolazione e nella memoria di chi ancora è sospeso nel fragile tragitto dell'esistenza. Nonostante il buio completo attorno, Peter non faticò a trovare l'urna dell'amata, agevolato dalle modeste dimensioni di quel cimitero di poche anime. Arrivato che fu di fronte all'iscrizione funebre che decretava sulla sua pietra tombale, le date di nascita e trapasso di colei che fu la sua unica ragione di vita, cominciò a scavare come un ossesso, prelevando intere zolle di terriccio reso molle dalle recenti piogge, con la veemenza di chi è vittima di ossessioni morbose ma la tranquillità del sapere di non venir udito o disturbato, in quell'angolo di pace distante dal mondo caotico e dalle distrazioni dei vivi. Quando giunse al coperchio della modesta bara di legno ad appena un metro e mezzo dalla superficie con ancora strati di polvere di terra disseminata caoticamente sopra, fece leva con la punta in metallo della pala stessa per scardinarlo ed aprirlo prontamente con la complicità dell'esiguo numero di chiodi utilizzati per serrarlo. Quando il coperchio si aprì, un pungente e fetido miasma di putrefazione si introdusse insolente nelle sue narici, riportando alla mente immagini di acidità e dissoluzione degli organici elementi ma la convinzione con cui si adoperò, valicò qualsiasi dubbio e remora dell'ultimo istante e lo assistette nella audace presa del cadavere ossuto ormai alleggerito perchè ridotto ad uno scheletro privato del volume corporeo. Lo prese, lo abbracciò, lo caricò sulle spalle estraendolo dal suo letto. Ricoperse la buca, spianò la terra con la base della pala, si assicurò puntandovi la torcia che il sacrilegio dell'esumazione appena compiuta, non destasse sospetto e sdegno alcuno e, riafferrando lo scheletro della sua amata e ricaricandolo sulle proprie spalle, si preoccupò di uscire da quelle mura. Tornato a casa, chiuse tutte le tapparelle per celare la violazione compiuta da sguardi indiscreti, accese poi la luce e appoggiò lo scheletro nel divano del soggiorno. Lo fissò. Lo mirò a lungo. Si accese una sigaretta e agevolò tra i cerchi di fumo che si espandevano intorno, la propria riflessione. Colse del cadavere che aveva innanzi, il trapassato fascino, la corrotta bellezza che nulla recava su di sè del trascorso fulgore. Argomentò tra sè che quello di fronte a lui sarebbe potuto essere lo scheletro pur di una persona qualsiasi, scambiata per sbaglio dal becchino tanto aveva cancellato sulla propria immagine ogni più timido segno di riconoscibilità, nell'ombra della morte che getta il suo drappo nero su ogni individualità, assottigliando il tutto ed equiparandolo al nulla. Lo osservò attentamente preoccupandosi di non trascurare dettaglio alcuno ma non riuscì ad individuare un seppur infimo profilo di riconoscimento neppure nella dentatura marcita di quell'ammasso di ossa senza più volto. Si convinse poi che quelli di fronte ai suoi occhi increduli e sconvolti, erano pur sempre i resti di colei che lacerò irrimediabilmente il suo cuore innamorato e la afferrò, la alzò, la abbracciò, la baciò nel cranio disincarnato e la portò nel letto, adagiandola su quelle lenzuola che avevano assistito ai loro migliori momenti di passione, consumata nei fervori dell'amore in vita. Maupassant diceva che il letto è tutto ciò che ci assiste dal principio al termine della nostra esistenza perchè tutto facciamo nel letto: nasciamo, ci ammaliamo, amoreggiamo e infine moriamo in un letto. Quell'oggetto apparentemente così innocuo, ma testimone di tutte le nostre gioie e afflizioni, imperterrito compagno di vita, doveva quindi divenire anche il luogo dove consumare l'ennesimo atto d'amore, reso estremo solo dalla prematura morte sopraggiunta anzitempo. Fu così che decise di portarsi appresso quello scheletro, abbracciarlo, avvolgerlo con le proprie membra, baciarlo sulla dentatura perpetuamente, sfacciatamente e audacemente sfoggiata in tutto il suo assoggettamento alla corruzione, e di deflorare ancora ma quel bacino di ossa ormai privato del tepore della carne, ormai estinto dall'opportunità di scovarne il canale del piacere, essendo esso stesso deturpato del suo strumento vitale di perpetuamento della specie. Ad un tratto si accorse che quel rapporto necrofilo così maldestramente improvvisato, fu ridicolo e quanto mai lontano dal sembrare attraente. La donna che amò in vita, aveva irrimediabilmente perso tutto il suo fascino, non inoltrandone dettaglio alcuno oltre il confine della vita terrena. Ogni peculiare segno di individualità era stato impunemente cancellato dalla morte, che annichilisce tutto non curandosi di nomi nè dinastie, titoli o storie nè di distinzioni corteggiate altrimenti in vita. Assentì con sopravvenuta impotenza alla consapevolezza di aver appena tentato scioccamente di avere un rapporto con uno scheletro qualunque, che sarebbe potuto essere di chiunque. Percepì allora anche i limiti di un amore che era parso, sino a quel momento, di non averne alcuno; accolse la corruttibilità di ciò che appariva incorruttibile e il potere invincibile di una morte che spoglia anche l'amore, dopo avergli conferito ossigeno solo con le illusioni della mente drogata di chi l'amore lo prova e quindi così lo genera inconsciamente ma unicamente nella prigione della sua mente visionaria. Capì che ciò che i vivi chiamano amore in realtà, di fronte al passo estremo della morte, è solo illusione e fragilità, inganno della mente viva, assoggettato al disincanto del trapasso. Quando si rese consapevole anche della fragilità di ciò che pensava fosse più forte della stessa morte, non potè che corteggiare la coscienza della fine del senso stesso della sua esistenza ed il conseguente desìo dell'autodistruzione, perito l'unico movente che dava a quella stessa vita un significato. Fu allora che prese una corda. La legò saldamente e scrupolosamente ad una trave del soffitto e ancor più tenacemente intorno al proprio collo, preparandosi a scaraventare la sedia sotto i suoi piedi con un calcio che avrebbe presto decretato la fine di un'esistenza vissuta solo al cospetto di un inganno.

Emmanuel Gravier Menchetti.