domenica 9 novembre 2014

Recensione musicale - MATTEO LA VOLPICELLA: "ANDROMEDA"



Quando la conoscenza approfondita delle leggi armoniche che governano il cosmo di questa magia che l'uomo ha creato, chiamandola musica, è talmente penetrata nella mente del musicista da filtrarsi come un fluido, un blob persino tra i collegamenti neuronali e tale da guidarne spasmodicamente e ossessivamente i pensieri ... quando questa affascinante scienza intacca la memoria dell'artista a tal punto da governare i suoi stessi incubi, forgiando la sua personalità e la sua univoca visione del mondo esterno (...alla stessa custodia della chitarra!), quando la familiarità con le scale anche più lontane dall'uso comune e geograficamente più distanti dalla terra e dalla cultura natìe, si conforma talmente alle mani del musicista da assimilarsi alla danza algebrica delle sue dita tra i tasti dello strumento, si entra in un pericoloso bivio. Arrivati a questo punto il musicista onnisciente deve fare una scelta importante. O pensa a sè stesso da musicista dando libero sfogo egoistico alle sapienti mani, ma limitando il proprio piacere al solo atto di suonare, fregandosene completamente dell'ascoltatore e di tutti coloro (compreso sè stesso) che saranno i fruitori finali del suo prodotto, oppure continua a pensare alla propria persona ma affidandole anche il ruolo di ascoltatore, condizione, a mio modo di vedere, situata ad un livello di maturità superiore, o meglio, ad uno stadio più raffinato dell'egoismo. Purtroppo però, quando la tecnica strumentale raggiunge livelli estremi e quasi parossistici, la scelta ricade spesso sulla prima ipotesi. A questo punto, gli studi fatti, gli anni passati a combattere contro l'anchilosi delle dita, non sempre risultano fini univocamente a loro stessi, ma la composizione ne risente irrimediabilmente nel suo complesso e la monomania della perfezione stilistica prende il sopravvento sulla visione panoramica delle cose. In questo stadio emotivo la musica diventa spesso strumentale e, in questo caso, addirittura monarchica, in quanto stiamo parlando dell'utilizzo in questo disco, seppur in modo eccelso e nelle sue varie sfacettature, della sola chitarra. Raggiunta questa vetta di eccellenza in fluidità stilistica dell'esplorazione armonica, in cui il musicista diventa raffinato ricercatore anche delle soluzioni melodiche più improbabili, a fianco di brani veramente impeccabili sia a livello ritmico che solista ma, allo stesso tempo, capaci nondimeno di trasmettere emozioni piacevoli anche all'ascoltatore (come i primi due che aprono l'album), si liberano dalle mani di questo demiurgo della sei corde, altri estratti decisamente poco convincenti. In questo confine che io colloco tra il secondo ed il terzo brano, si perde l'importante canale di comunicazione emotiva tra artista e ascoltatore, quel flusso neuronale di sogni e piaceri che unisce vicendevolmente sia l'uno che l'altro, donando delizia e soddisfazione incondizionatamente ad entrambe. Invece questa mentalità tipicamente "jazzistica" di vedere la musica, colloca chi ne fruisce ad uno stadio inferiore rispetto al creatore stesso ed è solo allora che quest'ultimo intraprende una via che lo allontana dal primo soggetto a cui lo stesso prodotto assurdamente e, per giunta, si rivolgeva (!!!), disperdendo un po' il senso del disco stesso. La bizzarrìa armonica di certe soluzioni si unisce in questo caso anche a scelte ritmiche un pochino bislacche o non troppo inquadrate, imprigionando l'ascoltatore nella fantasmagoria di un linguaggio algoritmico privo di una codificazione condivisibile. La registrazione casalinga non aiuta il disco ad emergere da questo pericoloso pantano, pur non perdendo in definizione delle singole note suonate che, come uno tzunami, arrivano tutte comunque cristalline e ben distinte all'orecchio dell'ascoltatore, anche agevolate in questo, dall'assenza di altri strumenti che andrebbero forse a sporcare lo sfogo accademico del funambolico chitarrista pesarese.  L'integralismo compositivo che lascia, a mio parere, troppo libero sfogo all'improvvisazione, perdendo l'ordine della visione globale del tutto, per fortuna molla, in non pochi momenti, la sua presa, rilasciando questo disco un poco respirare e ridonandone prezioso ossigeno e contegno stilistico, riappropriandosi quindi saggiamente di quella osmosi tra musicista ed ascoltatore prima peccaminosamente abbandonata. In sostanza quindi, questo "Andromeda" forgia nella mia comprensione immaginativa delle cose, l'idea di un parto artistico esclusivo, troppo di nicchia e che si rivolge solo a musicisti raffinati, affiancando a brani veramente ottimi altri che, personalmente, non mi hanno detto nulla o mi hanno addirittura fatto un poco storcere il naso. Le capacità non mancano, manca un po' di quell'ordine e di addestramento del proprio estro che sono però anche responsabili di una maggiore professionalità e, lasciatemi dire e siate con questo termine indulgenti, "commerciabilità" di un lavoro. Con la speranza e il monito di un miglioramento futuro in questo senso, incondizionatamente deliberiamo.

VOTO: 7

Emmanuel Gravier Menchetti.

mercoledì 22 ottobre 2014

RECENSIONE MUSICALE: CARNALITY - "Dystopia" (2014)



Parafrasando il titolo di questo album, tra l'altro introdotto da un artwork di eccezionale fattura, incentrato su una metamorfosi orgiastica tra specie animali e umanoidi in cui le une inghiottono le altre prendendone allo stesso tempo le sembianze (insomma un'immagine che a me che soffro di certe perversioni, ha fatto sfiorare quasi l'orgasmo e la commozione cerebrale!!), la musica che si libera furiosa come una tempesta apocalittica dalle sue sanguinose tracce, travolge senza pietà tutto ciò che trova intorno, proiettando la mente dell'ascoltatore verso una dimensione futuristica visionaria ancora sconosciuta all'attuale pace terrestre e che è umanamente indesiderabile, corrotta, brutale e ignobile, relegando l'anima umana ad una sorta di prigione onirica e claustrofobica, in un deserto di morte da scenario post-atomico, in cui le aspettative vengono spazzate via da un gigantesco orco che,  con la voce devastante, di biblica potenza del pesarese Luca "Dave" Scarlatti, inghiotte la luce di qualsiasi speranza di sopravvivenza in un Chaos cosmico catastrofico, rovinoso e degenerato. Il tema futuristico-apocalittico era già caro alla sua precedente band di cui è rimasto orfano ossia gli E.t.h.a.n., reduci del valido "I want to believe" del 2010. Le sonorità sono cristalline, curate nel minimo dettaglio sino al parossismo dal grandissimo guru della produzione Simone Mularoni che riesce, con la sua opera, a creare ordine e definizione dei suoni, plasmando come argilla in mani sapienti, l'istinto di demolizione totale e assoluta che pulsa forte nelle corde della band riminese senza minimamente ridurre il loro impatto, ma anzi ottimizzandolo e sublimandolo in un'ottica artistica degna del massimo rispetto. La sezione ritmica è un treno in corsa intento unicamente a sradicare tutto ciò che malauguratamente si trovi nelle vicinanze, travolgendolo in un inferno sonoro di portata cosmica e dannatamente accattivante. Il riffing brutale mostra una precisione chirurgica, è spietato, freddo, tagliente, come la lama di un macellaio,  bruciante, claustrofobico e incastonato perfettamente tra i vari cambi ritmici ma non sacrifica, allo stesso tempo, fraseggi melodici all'unica bandiera della brutalità incondizionata. La voce è la trasposizione in musica di tutto ciò che possa essere più devastante, ferale, annichilente e capace di sopraffare con la sua potenza lisergica qualsiasi forma di vita vertebrata e invertebrata, come l'eco di un mostro lovecraftiano in una valle desolata di cadaveri calpestati e spremuti dal peso del suo passaggio. Le frequenze raggiunte da questa ugola d'acciaio toccano tutte le sfumature del genere trattato, dal più ferale scream capace di auto-sradicarsi masochisticamente le corde vocali al più cupo e potente growl, profondo come il baratro lasciato dall'impatto di un meteorite, memore di ammonirci che dovremo morire tutti come vermi pestati senza speranza. Insomma... la Svezia si è trasferita qui, tra Marche e Romagna, riverberando la sua indole di distruzione tra i folti boschi del monte San Bartolo. In una frase .. un colosso monolitico di inaudita violenza, di ineccepibile audacia bellica: uno dei dischi più devastanti di brutal death mai ascoltato in 25 anni.

VOTO: 8,5

Emmanuel Gravier Menchetti.

domenica 19 ottobre 2014

RECENSIONE MUSICALE: ARKA - "Cyclical Shift" - 2014



Ciò che mi trovo qui davanti non è il prodotto di un gruppo ma di un singolo compositore nella persona di Alberto Della Fornace, arrangiatore, musicista eclettico e dalla creatività che supera il muro del suono del talento umano. In seguito alla triste fine del gruppo di progressive strumentale sinfonico dei Lacrimae da lui guidato ed alla separazione dal suo muro ritmico portante ossia il funambolico personaggio di dubbia lucidità Emmanuel Menchetti (in arte "Sir of Desolation" - mi sembra quasi di conoscerlo!) divenuto nel frattempo polistrumentista ed egli stesso compositore di un'infinità di brani strumentali in 2 soli anni, il nostro Alberto crea parallelamente ciò che è la trasposizione perfetta in musica della sua affascinante personalità, ossia il progetto "Arka". Cominciamo col dire che per chi conosce i Lacrimae, risulta subito chiaro ed evidente chi fosse il compositore unico di quel gruppo; le atmosfere epiche, sinfoniche, classiche, solenni, dal portamento faraonico, vengono ereditate dalla precedente esperienza nel quartetto. Ciò che stupisce però è percepire in modo chiaramente evidente, il suo genio creativo districarsi  in modo pertanto ineccepibile, anche negli arrangiamenti ritmici oltre che polifonici e quindi in parti originariamente non sue ma affidate ad altri nell'economicità della precedente band. I cambi di atmosfere intarsiate in architetture ritmiche sono di assoluta pregevole fattura e si intersecano efficacemente con melodie che si rincorrono suadenti come farfalle in amore nel bosco del genio assoluto della sua creatività senza limiti, nell'equilibrio metrico del grembo fertile di un'armonia puerpera della sua gestazione creativa. Tutti gli strumenti sembrano come steli che, nella pazzia primaverile, fioriscono improvvisamente tutti assieme, donando alla natura i sorrisi della terra e liberando nell'aria effluvi sonori ammalianti, perfettamente funzionali in un ecosistema musicale ineccepibile nella sua completezza e ordine, ed il tutto è artefatto in maniera talmente egregia da riuscire davvero difficile immaginare che possa nascere ed esaurirsi nelle risorse cerebrali di un'unica mente creativa. Impossibile credere che il ciclo di questa perfezione che sfiora il divino senza temere coraggiosamente la sua nemesi, possa intarsiarsi per giunta senza soluzione di continuità, nell'univoca, monarchica visione della musica di un'unica anima pensante, ma questo è e qui si rende necessario ricercare l'espediente per cui questo disco vada valorizzato ancor di più che nel caso in cui fosse stato opera del contributo di più musicisti assieme. Come se non bastasse la produzione è assolutamente entusiasmante, credo sia il disco meglio prodotto tra tutti quelli ascoltati nella mia vita, rendendo giustizia al suo indiscutibile spessore artistico. Le immagini che vengono trasmesse come un fiume in piena all'ascoltatore ignaro, sono dissimili da tutto ciò che potrebbe implodere nell'ovvietà, ma si corteggiano per contro e si compiacciono di una dimensione onirica che seduce il fruitore, trasportandolo nella visione di un prato dove tra fiori bianchi, compaiono magicamente fiori neri, come ombre di oggetti sospesi nell'aria, simili nella forma ai primi, ma più grandi, prodotto del genio malsano della terra, che nasce dal male, più affascinante, e che ambisce a sfidare il divino, vincendolo.

VOTO: 10 E LODE

Emmanuel Gravier Menchetti.

sabato 13 settembre 2014

RECENSIONE: "Mussolini: ultimo atto" - Carlo Lizzani (1973)




Il film trasmesso ieri sera su la7 è molto ben realizzato, con interpreti molto talentuosi e credibili, e immerge lo spettatore in una sorta di mimetizzazione provocata da un film-documentario dove la fiction viene sapientemente miscelata alla visione di immagini originali dell'epoca. Nota negativa: il solito stile filo-americano di condurre le narrazioni sottolineando il carattere di codardia di Benito Mussolini (anche se oggettivamente si focalizza sull'ultimo capitolo della sua vita e non certo quello glorioso della sua ascesa al potere) piuttosto che altro e lo fa in un modo malizioso da darmi l'impressione di voler volutamente raffreddare gli entusiasmi di certe nostalgie presenti ancora nel nostro paese. Del resto il discorso è sempre quello ossia che la storia la scrivono sempre e solo i vincitori, o meglio, nel caso specifico, chi aveva semplicemente deciso di non perdere quando cambiarono le acque e noi adesso, pur saggi telespettatori, ci dobbiamo sorbire la solita interpretazione travisata di chi è incapace di narrare senza trasmettere la propria soggezione al potere mediatico dei più forti. Per il resto, ottimo film ma quando si narrano fatti storici, l'attenzione su quella che è l'interpretazione soggettiva che l'autore dà di essi diventa inevitabile ai fini del mio giudizio. Si tratterà di una deformazione personale.

VOTO: 7,5

Emmanuel Menchetti

lunedì 8 settembre 2014

RECENSIONE CINEMATOGRAFICA: "LA TERZA MADRE" - Dario Argento (2007)



Nel 2007, quando uscì al cinema, deflagrai l'invito di qualche horror-amico di vederlo con lui, ma per andarlo a vedere da solo!! era la notte di halloween e lo andai a vedere al cinema di Fano, avrei raggiunto gli amici per una serata occulta dopo questa visione. Sapevo che rappresentava il terzo capitolo di una importante trilogia iniziata col seminale Suspiria del 1977 e continuata con il pure ottimo Inferno del 1980 e volevo dedicarvi tutta l'attenzione che meritava, il silenzio che ti può regalare solo la solitudine di una sala semi-deserta scegliendo uno spettacolo ad un'ora improbabile e quindi meno frequentata. Il trauma subìto fu dei peggiori, uscii dal cinema quasi con le lacrime agli occhi dal sacrilegio, un imperdonabile affronto che Dario Argento aveva osato attuare contro un suo stesso film, dirigendo una pellicola dozzinale e disarmante, mediocre e sbrigativa gettando discredito sull'intera trilogia e infangando anche il proprio passato oltre al proprio nome già duramente bistrattato con le ultime produzioni. Ciò che mise a dura prova in realtà fu la mia stessa ASPETTATIVA di trovarmi di fronte al desiderio del regista capitolino di riscattarsi, proprio recuperando il terzo capitolo della trilogia rimasta sospesa, quello dedicato a Mater Lacrimarum, ad una rinnovata volontà coadiuvata con il beneficio di una trama la cui architettura storica era già stata nobilmente scritta dai 2 capitoli precedenti. Fu proprio l'aspettativa a deludermi. Rivederlo 7 anni dopo, con il ricordo di quel fallimento atroce mi ha modificato lo stato psicologico di base con cui ne ho affrontato la visione, ossia quella stessa aspettativa, appunto. Quando si modifica la conoscenza e si riduce la facoltà previsionale, l'ottica e i parametri valutativi mostrano il loro potere nel modificare il giudizio. Fui tradito dalla DISILLUSIONE a fronte di ciò che credevo di trovarmi di fronte. Il film effettivamente contiene gravi pecche oggettive come una trama srotolata in modo frettoloso e guascone, senza la minima cura di vari dettagli che soffrono dell'abbandono a sè stessi, oltre alla recitazione di vari interpreti, tra cui quello della figlia Asia, davvero pessima e peggio che amatoriale. Neppure nel finale poi, ossia in un momento cruciale di qualsiasi pellicola da cui ne deriverebbe buona parte dell'imprinting qualitativo, Argento decise di soffermarsi un po' di più, lasciandolo nelle mani di una grossolana e volgare risata della figlia come a ridere di un'opera sostanzialmente da buttare nel buio dell'oblio. In realtà però, non tutto è da buttare; il film è molto cruento, stimola un clima surreale di pazzia che affligge vari personaggi e che martirizza lo spettatore da più angolature soffocandone la visione e lo stile di signorile tragedia imminente che lo caratterizza da sempre, non risulta totalmente senilizzato dal tempo. Un film che si lascia comunque vedere. 

VOTO: 5,5

Emmanuel Menchetti

venerdì 29 agosto 2014

recensione - "La storia del Black Metal" - : Burzum - "Filosofem" 1993/1996



Quando solitamente si parla del Conte Grishnackh, all'anagrafe Kristian (poi tramutato in Varg) Vikernes, in arte Burzum, ossia ciò che nel linguaggio Tolkiniano riporta l'immaginazione al buco nero che inghiotte la luce, all'oscurità che divora la vita, si solleva sempre una nuvola di scandali per via dei crimini di cui si è macchiato e per cui attualmente ha scontato la pena. Ricordiamo che il compositore polistrumentista norvegese di cui stiamo parlando, in quel di Bergen nei primi anni '90 creò un progetto che nella storia del black metal, risulta assolutamente seminale per tutto ciò che è venuto poi. Ancora oggi nel 2014 nascono progetti solisti da studio o vere e proprie band che ripudiano la disponibilità della tecnologia di studio pur a basso prezzo per rifarsi assolutamente a Burzum, copiandone dettami sia creativi che di suono, paradossalmente facendone una ricerca (per crearlo così anacronistico, casalingo e amatoriale) maggiore di quella che oggi un gruppo di ragazzi non professionisti (ognuno avente un proprio lavoro al di fuori della musica) dovrebbe fare per produrre una demo in maniera assolutamente perfetta, proprio data la disponibilità odierna di produrre in digitale in modo ineccepibile a prezzi sostenibili pur dal modestissimo contributo privato senza quindi etichette che possano essere definite tali, ossia quelle che sgancino il grano interamente, per intenderci. Affrontiamo subito il suo alone criminogeno ricordando che il soggetto in questione ha scontato una detenzione di 16 anni per l'omicidio del compagno/socio produttore Euronymous con cui suonò il basso nei Mayehm (posizione che gli fu offerta in cambio di una produzione negata per "problemi di soldi" a favore di un più economico LP quale fu poi Aske), ebbe in società un negozio di soli dischi metal estremi ossia l'Helvete ("Inferno" in norvegese) nel centro di Oslo (negozietto curioso che all'epoca era illuminato solo da candele e non aveva neanche l'allaccio elettrico!) e il cui (Euronymous) avrebbe dovuto produrre l'intero primo disco omonimo di Burzum, essendo titolare della piccola etichetta Deathlike Silence Productions, cosa che non fece perchè reinvestì le vendite di suddetto disco nel negozio medesimo per coprirne i buchi finanziari nonchè per produrre altri lavori (spinto anche dalla paura che l'astro nascente di Burzum potesse gettargli ombra sulla sua figura di primordine nella scena black norvegese) e il tutto all'insaputa dello stesso Vikernes. Fecero il resto gli incendi di alcune chiese cristiane, costruite su antiche dimore di culti pagani pre-giudaici, disastri uno dei quali portò anche alla morte di un pompiere e di cui venne riportata fieramente testimonianza pure nella copertina dello stesso Aske (non a caso significa "Ceneri") che mostra la fotografia di un edificio di cui sono rimasti in piedi solo gli assi portanti. E' chiaro che quindi, anche a seguito di sue dichiarazioni anticristiane e antisemite dal sapore filonazista, è difficile poter parlare liberamente della sua musica senza lasciarsi condizionare (in un verso o nell'altro) dalle sue malefatte. Dato che questo è un blog che tratta unicamente di arte, io qui voglio concentrarmi unicamente sulla sua musica, voglio parlare del Burzum musicista e non del Vikernes assassino o nazista. Veniamo al disco quindi, a questo lavoro registrato nel 1993 prima della prigionia ma pubblicato solo nel 1996 grazie alla Misanthropy Records della giornalista tedesca di origine italiana Tiziana Stupia che si preoccupò di aprire la nuova etichetta unicamente per non lasciare che le produzioni dell'artista Burzum soccombessero proprio alla prigionia di Varg. Partiamo dalla produzione: chitarra acquistata di terza mano nel 1987 e registrata con l'uso di un pedalino fuzz senza l'utilizzo di amplificatori ma direttamente collegata all'impianto hi-fi del fratello (!!!!!!!!!!!!!!), batteria di un amico registrata direttamente con un solo microfono garantito come "il peggiore e più economico che avesse trovato in un negozio", voce registrata con l'auricolare di una cuffia... insomma un disco estremo registrato in condizioni estreme!!! Eppure questo suono è stupendo da quanto fa schifo, è sublime da quanto non è curato, diventa fisico, ti sembra di toccarlo mentre ti sfonda i timpani da quanto è sporco, selvaggio, desolante e alienato, abbandonato a se stesso ed ha fatto scuola; oggi tantissimi blackster si ispirano a lui e alla ricerca di questa purezza di suono che in realtà fu solo accidia e mancanza di voglia di spendere soldi inutilmente. Una derivativa negligenza che si tramutò (per scelta o per fortuna) in una filosofia di suono e di produzione. Le composizioni? .... assolutamente minimali, ipnotiche, ripetitive ma quei riff maledetti di chitarra marcia come un cadavere all'ultimo stadio della decomposizione e quei motivetti melodici di massimo quattro note sulla tastierina-giocattolo, si imprigionano nel cervello dell'ascoltatore e non lo mollano più, lasciandosi sedurre in modo molto più intenso di decine di riff complicati ad alto tasso di tecnicismi incastonati in un unico pezzo (..vedi diversi gruppi della nuova scena technical brutal russa o asiatica o del brutal core americano) o assoli a decine di note al secondo su tastiere collegate alle più capienti plug in. La voce vomitata al limite della sopportazione da un disgraziato a cui pare che stiano estirpando gli organi da vivo esprime un malessere di esistere unico nel suo genere. Insomma mi pare di sottolineare che questo disco sulla carta (e solo sulla carta) abbia tutte le caratteristiche per essere liquidato come un abominio sonoro da dimenticare .... eppure è un disco seminale che ha fatto la storia di un genere adorato da milioni di fedeli in tutto il mondo (....e dal sottoscritto), entrato addirittura nelle classifiche nel Regno Unito, cosa impensabile per un disco black metal, quindi?... chi ha ragione in questo mondo di matti? come al solito capita nell'arte ... tutti e nessuno, o forse proprio i matti!

VOTO: 8

Emmanuel Gravier Menchetti.


martedì 26 agosto 2014

IL MONDO DIVERSO

Non conosco il motivo per cui ora sono qui a raccontarvi la mia esperienza. Ormai, nella comodità del mio divano di casa, tornato salvo nella mia tranquillità, lontano da mondi sconosciuti, diversi da quello della noiosa routine in cui sono tornato a vivere, non so neanche più se ciò che mi appresto a raccontarvi sia stato frutto di un sogno, di un'allucinazione ... o di una incredibile realtà, se fosse una verità fisica o solo mentale, vissuta unicamente nella mia immaginazione, probabilmente la prediletta chiave della conoscenza di un mondo altrimenti incomprensibile con il nostro intelletto. Qual'è il confine tra illusione e realtà se i miei sensi, tutti in armonico concerto, hanno comunque percepito visivamente e auditivamente una situazione che, per quanto pittoresca e sconcertante, sia stata ricostruita in un'immagine univoca e inequivocabile di sodomia degli equilibri, in un'esperienza inaccettabile di ordinato disordine? Perchè il definire un'immagine solo allucinazione dovrebbe tranquillizzarmi se quella visione mi ha comunque creato inquietudine e sconcerto al pari di una verità rigettata moralmente o traghettata dalla logica nella sfera delle assurdità? Quale la differenza tra una realtà fisica ed una mentale se comunque nella mia mente tale evento è stato vissuto come reale? Quale diversità ciò comporterebbe nella propria soggettività intellettuale? Non esiste un solo mondo ma tanti mondi quante sono le menti pensanti che lo osservano o lo immaginano per cui le peculiarità del creato sono forgiate dal solo occhio di chi le guarda e le sue qualità intrinseche vengono estrinsecate nell'interiorità di chi, osservandole, ne fa propria, ne ingerisce visivamente la sostanza. Dimenticavo, mi chiamo Robert, sono un inglese che viene dalla Cornovaglia e voglio raccontarvi della mia incredibile esperienza vissuta durante il mio soggiorno a Monaco di Baviera in un immenso parco nel corso di un pomeriggio soleggiato di ordinaria follia. L'ampio giardino alberato di cui vi parlo è il celebre Englischer Garten, situato in una zona centrale di questa splendida metropoli, a ridosso dell'Hofgarten, vicino al museo nazionale Bavarese delle armi rinascimentali e attraversato dall'oscuro fiume Isar. In quel giorno maledetto da tutti gli Dei, ero appena uscito da un ristorante nel centro, nei pressi di Marien Platz, quando, avendo ancora a disposizione diverse ore prima del mio treno per Francoforte e con la complicità di una calda giornata soleggiata, decisi di farmi una bella camminata nei parchi della città per ammazzare l'attesa. Appena entrai nel giardino, mi lasciai gradualmente digerire lungo i suoi sentieri ombreggiati dai suoi alberi così immensi, quasi fossero canali di un immenso stomaco di vegetazione sparsa a profusione, piante dagli alti fusti intrecciati e aggrovigliati tra loro come lunghi capelli nella testa di ciò che si definisce volgarmente "rasta", dai rami così rigogliosi da celare completamente alla vista un seppur qualche scorcio di città, torre, campanile o di lontano monumento cittadino nonchè di tutto ciò che fosse testimone della civiltà conosciuta e vi percepii subito qualcosa di strano, come se la luce di quel sole venisse oscurata da una scatola grigia senza uscita, un labirinto nel labirinto della vita, una dimensione parallela di caos nel caos della città fuori. Fiero e convinto del mio senso dell'orientamento, coadiuvato dalla lucida immagine che avevo mentalmente della posizione geografica in cui mi trovavo e di quella in cui vi era il mio albergo (vicino alla Hauptbahnhof ossia la stazione centrale), non mi feci impressionare troppo dalla primigenia sensazione di smarrimento e alienazione suscitatami dalle lunghe ombre di quei dinosauri di rami e foglie sopra la mia testa a celare il rischiarante cielo, e decisi di proseguire per il mio sentiero. Ad un tratto il suo tragitto cominciò però a perdere la sua linearità, iniziò ad impazzire danzando sotto ai miei piedi in curve mozzafiato prima verso destra, poi verso sinistra, poi ancora verso destra, poi lanciandosi in una vorticosa, ipnotica circonferenza attorno ad un albero le cui figure della corteccia, mi parvero, avvicinandomi gradualmente ad esso, tanti volti dalle sembianze umane, come fossero raccapriccianti maschere di un teatro. Trovai la visione molto divertente e mi convinsi di proseguire per il suo funambolico corso, convinto di poter sempre tornare indietro ripercorrendo semplicemente all'indietro il tragitto fatto, per uscire così esattamente da dove ero entrato; questa mia convinzione mi avrebbe ancora accompagnato per molto a rasserenare il mio animo se il sentiero che seguivo, oltre ad inerpicarsi in strani e incomprensibili vortici di caotico disagio che parevano divertirsi a driblare i tronchi degli alberi disseminati confusamente nel parco, non avesse cominciato improvvisamente pure a dividersi in ulteriori sentieri minori che ne echeggiavano il vorticoso tragitto, ereditandone e rimbalzandone, perpetuandone l'eclettico portamento in altrettanti cerchi di follia come fossero vene umane nella complessità organica di muscoli e tendini del corpo estraneo di un essere gigantesco del quale io ero diventato solo una molecola in esplorazione. La nuova diramazione che mi si era dipanata innanzi, mi costrinse a scegliere uno qualsiasi di questi nuovi sentieri figli, abbandonando così la strada maestra da cui provenivo. Il mio ricordo di aver percorso l'intero Hyde Park di Londra in diagonale da Marble Arch alla Royal Albert Hall, ossia da un angolo al suo opposto senza perdermi, mi tranquillizzò sulla primigenia impressione di smarrimento e mi convinse ad addentrarmi nella selva oscura scegliendo casualmente uno dei suoi percorsi. Questo parco era però decisamente molto più alberato e se non fosse per qualche timido segno di civiltà come un cestino o una panchina disseminata nell'oscurità annichilente delle ombre di quelli che ormai non mi parevano più alberi ma dinosauri di rami e foglie, sembrava di essere dentro una foresta selvaggia, distante anni luce dalla presenza umana su questo pianeta. L'esistenza di questi dinosauri verdi col volto fatto di foglie e le zampe e la coda mimetizzati in rami vorticosi, mi negava alla vista qualsiasi evoluzione di tutto ciò che stava fuori al parco e fu così che la mia bussola mentale ... cominciò ad impazzire. Una sporadica apertura sopra la testa mi riconsegnò un raggio di sole tra l'oscurità delle ombre nella notte eterna di quel giardino di angosce, ma la mia mente non ebbe neanche il tempo di rilassarsi e godere di quello scorcio di cielo azzurro, che la luce rasserenante dell'astro venne subito coperta da un enorme aereo, una umana nemesi al mio coraggio o alla mia irresponsabilità, che pareva volare a poche decine di metri sopra la mia testa tanto da gettare nuovamente la notte su tutto ciò che mi circondava e irradiando un rumore infernale come di motori impazziti che si riverberava tra le vene del gigante organismo che stavo percorrendo e tale da sentirne persino le vibrazioni nella terra sotto ai miei piedi, come si trattasse di un violento terremoto. Pensai ad un aereo che stesse per cadere vicino, un velivolo dirottato, percepii la stranezza di quella visione e mi convinsi che qualcosa non andava e solo un disastro imminente poteva costringerlo a volare ad un'altezza così proibitiva. Nulla appariva più riconoscibile, normale. Anche le cortecce degli alberi rincominciarono a mostrare volti umani. Mi avvicinai ad un tronco e vidi tante facce, come di vecchi barbuti, uno dei quali urlandomi con un volume che superava il boato dell'aereo poco sopra gli alberi, mi disse "se ti sei perso, segui l'aereo sopra la tua testa, sta per andare a schiantarsi proprio sulla stazione del treno!!" e ad un tratto i volti si misero tutti a ridere, sporgendosi ancora di più dalla corteccia dell'albero da cui parevano voler uscire e guardandosi tra di loro come in una complice combriccola di amici ubriachi. Preso dallo spavento mi misi a correre ma non sapevo dove. Corsi il più lontano possibile da quegli alberi parlanti, da quei volti che sembravano la materializzazione di tutto ciò che è più ignobile e grottesco, demenziale e corrotto in un mondo che dovrebbe solo essere onirico per conferire dignità alla nostra stessa esistenza. Sfinito dalla stanchezza e con il fiato corto, mi fermai e incontrai una vecchietta con al guinzaglio un cagnolino, che camminava con i piedi nudi (tenendo le scarpe nelle mani) in un sentiero di fango. Incoraggiato dal fatto di aver incontrato finalmente il primo essere umano dal mio ingresso nel parco degli orrori, le chiesi dove potesse trovarsi l'uscita più vicina e quale la direzione per la stazione. L'anziana signora, sino ad allora ricurva su se stessa, alzò allora lo sguardo ipnotico verso di me. I suoi occhi parevano infiniti cerchi concentrici dentro al cerchio dell'iride, ognuno di un colore contrastante col suo vicino. Cominciò a parlarmi in un tedesco incomprensibile, io la fermai e le dissi nella mia lingua che non conoscevo il tedesco e lei, dopo essersi un attimo fermata con un'espressione di assenso, come se avesse capito quello che le avevo detto ... continuò a parlarmi nella sua lingua! Mi sembrava di impazzire!! Forse ero già pazzo, ma lei continuava a parlarmi senza che io capissi una parola. Il mio intuito mi suggerì che mi stesse spiegando il perchè camminasse a piedi nudi nel fango, forse le era stato consigliato da un medico per le articolazioni, per la circolazione, non lo so ma guardando verso il basso vidi il mignolo di entrambe i piedi accavallato in alto verso le altre dita come se fosse completamente spezzato. Poi la vecchietta si mise a ridere in un modo gutturale, mostrando la sua dentatura marcia e il suo cagnolino cominciò a ringhiarmi e ad abbaiarmi rumorosamente mostrando dei denti affilatissimi e lucenti che fuoriuscivano dalla carne viva delle gengive che parevano gonfiarsi in bolle per poi esplodere in schizzi di sangue copiosi. Ormai in preda all'ansia più totale mi misi a correre lontano, sicuro del fatto che quel piccolo mostro ricurvo, impantanato nel fango con il suo piccolo ma terribile animale legato, non potesse seguirmi. La risata della vecchia strega fu presto riverberata da quella di tutte le statue attorno disseminate nel giardino, che cominciarono poi a spalancare le loro bocche sino a strappare le labbra scolpite in rinnovati cori di disarmonia, di una cacofonia che non dovrebbe essere la colonna sonora neppure dei peggiori incubi, che orecchie umane non dovrebbero mai udire perchè offenderebbero in note sconosciute ogni regola musicale, pure la più audace e controversa. Era tutto così assurdo, claustrofobico, un labirinto disordinato di follia nel labirinto della mia angoscia di paure che si smarrivano nella giungla dell'emotività eccitata. Trovai finalmente una piantina del parco con una freccia che indicava il punto in cui mi trovavo. La sensazione glaciale di paura che avevo provato sino a quel momento, mi gettò un attimo di ossigenante lucidità nella mente annebbiata dal torpore del panico e dello smarrimento, compiacendo la mia ricostruzione mentale del percorso fatto e della direzione che avrei dovuto seguire per uscire da quell'inferno di foglie, tronchi parlanti, aerei dirottati, persone alienate e cani mostrificati. Intrapresi una direzione tra quei sentieri impazziti, nella follia delle ombre anonime gettate nello spazio cupo e annichilente della notte nel giorno, da alberi giganteschi che, abbracciandosi tra loro e aggrovigliando reciprocamente i propri rami gli uni con gli altri, parevano amoreggiare tra loro in un'orgia infernale che stuprasse la verginità vegetale tramutandola in goliardia carnale, in modo tale da nascondere persino la più timida visione del cielo e fomentare dubbi anche solo sulla esistenza o meno di corpi nuvolosi sopra la mia testa. Mi pareva persino di udire i gemiti femminei, come di donne abbandonate al piacere, scaraventate dalla compostezza morale o ipocrita della civiltà nel carnaio assurdo di quel godimento selvaggio mentre rami di alberi penetravano le ombre negli anfratti resi tenebrosi dalle ombre di altri e mentre le statute continuavano a ridere di tutto ciò che vedevo attorno, forse anche di me. Dopo un'oretta di cammino verso quello che credevo fosse il mio sentiero verso l'uscita, ritrovai un'altra piantina. Osservandola attentamente ci misi diverso tempo prima di trovare la freccia che indicava il punto in cui mi trovavo proprio perchè quel punto era dalla parte opposta a quella in cui credevo di trovarmi. Pensai che o la mia mente provocata dall'emotività e dalla paura accecante, mi stesse giocando brutti scherzi, o le piantine erano truccate nel senso che qualche vagabondo per ammazzare la noia del tempo regalato dalla disoccupazione, si divertisse a cancellare con qualche artificio le frecce per disegnarne altre a caso, così da divertirsi a smarrire i malcapitati turisti. "Che idioti!!" pensai, convincendomi di quest'ultima ipotesi che rigettava l'idea della mia incipiente insanità mentale in favore di quella altrui. A quel punto mi convinsi di avvicinarmi al corso del fiume Isar, tenerlo ben sott'occhio e accompagnarne il tragitto percorrendo il viale che lo accostava lungo la sua riva, fino a quando sarei sfociato alla fine del parco o che fosse l'uscita nord o quella sud (più vicina al centro cittadino) ma che comunque mi restituisse al mondo della civiltà senza più alberi che gettassero ombra sulle mie certezze e nebbia sulle mie aspettative. Dopo aver accompagnato il corso del fiume per diverse centinaia di metri, qualcosa mi disse che forse stavo dirigendomi verso nord, allontanandomi ulteriormente dalla posizione del mio albergo. Ad un tratto ricordai di avere una piantina della città, la tirai fuori ma ovviamente non mi aiutò in alcun modo e altro non poteva fare dato che mi trovavo al centro di un manicomio di alberi di cui non conoscevo minimamente la posizione. Sapevo solo di trovarmi dentro quella che la mia piantina riportava come una grossa macchia verde al centro della città, uno specchio di natura selvaggia inghiottita dalla stessa civiltà, ma non sapevo in quale punto di quella "macchia" mi trovavo. Rassegnato ormai alla disperazione e sorpreso da un attacco d'ira contro il mio destino, gettai quella inutile piantina in un cestino, la cui bocca poi si chiuse prontamente sul mio gomito, stringendomi il braccio e divorandomelo mentre tentava di inghiottire tutto il mio corpo. Sferrai violenti calci contro il bidone fino a ribaltarlo per terra, liberando il mio braccio e correndo poi come un ossesso il più lontano possibile dal cestino carnivoro. Continuai a seguire il corso del fiume, quell'oscuro letto di acque verdi inaccessibili dal bosco e che però pareva essere il mio unico amico, il mio riferimento, la cui linearità riconsegnava ordine nella demenzialità e nell'ignominia dei disordinati sentieri del parco. Fu così che scelsi una sua direzione casuale e la percorsi sino allo sfinimento, convinto che o dal lato nord o da quello sud, mi avrebbe per forza di cose fatto uscire dal parco. La mia testardaggine mi premiò riconsegnandomi, dopo chilometri percorsi a ridosso del fiume, alla città e al suo ordine, cosa che poi mi permise di raggiungere, con l'aiuto di una rinnovata tranquillità a favore di una maggiore lucidità, facilmente l'albergo, riappropriarmi della mia valigia e prendere il treno sperato. Questo è quello che accadde in un folle pomeriggio di un giorno altrimenti normale di un piacevole soggiorno nella splendida capitale bavarese. Non so se quello che ho vissuto sia reale, frutto di un'allucinazione o il connubio di realtà e sogno, vita quotidiana e sua interpretazione soggettiva, ma ciò di cui sono sicuro è che non assumerò mai più sostanze psicotrope da uno sconosciuto in pieno pomeriggio, prima di addentrarmi in un grande parco di una immensa città che non conosco. La spavalderia talvolta lascia spazio alla perdita del controllo e la lucidità allo spasmo dell'angoscia, quando ci si addentra irresponsabilmente negli interminabili ed incomprensibili meandri del bosco ... forse solo della mente umana.


Emmanuel Gravier Menchetti.

domenica 3 agosto 2014

RACCONTO: "UN VERO AMORE E' PER SEMPRE !!"

Non poteva smettere di guardare quella foto. La teneva in mano lasciandola tremare per la forte emozione, quel miscuglio di ansietà e rassegnazione, cruccio e sofferenza struggente che lo attanagliava dalla morte di sua moglie. L'immagine di quella donna, eterna di fronte al corso degli eventi, resa immortale e libera dalla corruzione del tempo inesorabile, era l'unico ricordo che Peter manteneva dopo la sua tragica morte. Quel piccolo specchio di serenità, porta per riconvertire al remoto, passaggio per il mondo etereo e mentale dei ricordi, cominciava esso stesso a sbiadirsi col tempo, a perdere la vivacità dei colori e dei contrasti come la vitalità, le passioni e l'entusiasmo gradualmente abbandonano le menti ottenebrate con l'incipiente aridità della vecchiezza. L'inevitabile logoramento, il lento decadimento che intaccava pure gli oggetti al pari degli esseri viventi fino all'unico esito ultimo della morte universale che inghiotte parimenti il tutto e della fine imprescindibile, del nulla ineluttabile vissuto come naturale termine del ciclo di tutte le cose, cominciava a vincolare la mente di Peter ad un pensiero fisso, ad una monomania che si contorceva in una stanza circoncisa solo di ombre inviolabili, di tenebre invalicabili, di libertà interdette. Il suo amore così intenso, che per la sua grandezza e il suo onore avrebbe meritato, unico tra i misfatti e le azioni corrotte, di valicare i confini ineluttabili, inviolabili della morte, non poteva vivere solo in quella foto; aborriva di potersi compiacere solo di un ricordo suscitato da un'immagine non immune alla dissoluzione. Il suo amore aveva bisogno di ritornare al suo seme, all'origine che in principio lo scatenò, a quella fisicità che il passare del tempo discredita pur nelle coppie ancora in vita, celandola nell'abitudine, ossia quel cancro nascente che progressivamente ci adombra la mente solo di dubbi, distogliendo l'attenzione dal prologo generatore delle nostre scelte. Erano passati anni dalla scomparsa della donna che aveva tanto amato in vita e aveva continuato a ricordare fino ad ora. Lustri di solitudine e mero ricordo che non gli avevano più fatto vivere il presente, estirpandolo dalla cognizione del tempo, come se questo si fosse fermato dal momento luttuoso, come se il trapasso della compagna avesse distrutto un orologio interiore, arrestandolo all'ora stessa della morte. Quando un amore umano raggiunge vette invalicabili di intensità, sconfinando nel divino, allorchè l'umano sentire si tramuta nella sensitività di un essere capace solo di provare emozioni perfette, immuni alla corruzione, all'egoismo, all'interesse, questi amori non accettano neppure la fine ultima delle cose che la nostra educazione ci insegna, assoldandoci alla rassegnazione e convertendoci all'impotenza sin dalla nascita, ossia l'inevitabilità della morte. L'amore è vita e la vita si nutre perpetuamente di fisicità, di contatto epidermico che nel mondo animale dal quale proveniamo, genera l'unica legge di salvezza della specie, ossia il ciclo riproduttivo. Il vero amore merita di superare le incorruttibili leggi della morte che nessun uomo ha mai tentato di sopraffare prima e per lo stesso motivo per cui l'uomo medesimo, essere dotato di sensibilità e intelligenza, consapevolezza ma speranza, non merita di vedersi spegnere la vita di fronte a leggi naturali che lui stesso, abituato a comandare il mondo e a modificarne le regole, non ha chiesto nè mai avrebbe voluto, pur a costo di non nascere nemmeno. Ad un tratto la mente di Peter si svegliò dal torpore del lutto. Capì che la visione di quella fotografia non era un modo degno di reiterare il ricordo e di vivere ciò che la vita stessa gli aveva tolto. Concepì la rinnovata consapevolezza che in questo modo non stava forgiando perseveranza in quel rapporto stroncato, ma stava vivendo solo con il riflesso di sè stesso e della sua solitudine, che si rispecchiava in quella foto. In quell'immagine tremante a seguire il tremore delle sue mani, colse di non vedere più il volto dell'amata spirata, ma solo il riflesso della sua alienazione, come se stesse infierendo unicamente con il proprio dolore, come se nel mirarla, stesse contemplando il suo dolore in un autocompiacimento onanista. Più i ricordi si allontanavano dalla cognizione del fluttuante presente nell'inesorabilità del tempo che fugge senza prestare attenzione agli eventi e ai sentimenti, e più quelle stesse memorie si rendevano odiose perchè si accompagnavano alla consapevolezza della vanità del tutto. Fu allora che in un triste 17 novembre di un anno insulso che al lettore non interesserà sapere poichè non preclude l'avvicendarsi di questa storia, che Peter prese una decisione rivoluzionaria. Corteggiò l'idea di recarsi la notte stessa nel cimitero del proprio paese di campagna in cui era stata sepolta la sua amata e, sfruttando il completo isolamento del camposanto rispetto alle abitazioni più adiacenti oltre alla complicità dell'orario insospettabile, dissotterrarne il cadavere. Nel momento di munirsi di pala e di preparsi concretamente all'azione, calcolò di poter scavalcare facilmente il muro di recinzione della piccola necropoli con l'ausilio del cofano della propria auto che avrebbe utilizzato quale scala. Arrivato al principio del muricciolo di fianco alla chiesa nel pieno di una silenziosa notte senza stelle, fu felice di constatare che quel pittoresco gradino scelto quale strumento per introdursi tra le lapidi di chi perse i sogni vitali nell'annichilimento del trapasso, si rivelasse effettivamente efficace al proprio rinnovato scopo. Fu così che quindi scavalcò il muro non prima di lanciare la pala dall'altra parte del confine tra i vivi e gli imperituri dormienti, per recuperarla poi, una volta ridisceso lo sconfinamento con l'ausilio di una lapide posta, come di consueto, sul principio del muro medesimo, quando atterrò i propri piedi all'interno del giardino funebre costellato delle mortifere dimore. Accese la pila e si fece luce nel vicolo che lo portò al feretro di colei che ancora bramava. I rami cadenti degli alberi attorno, disseminati tra i loculi e i sepolcri dei borghesi come degli umili, proiettavano dalla luce della torcia, sagome di mani ossute sugli epitaffi, mani come di chi volesse abbracciare i defunti nella consolazione e nella memoria di chi ancora è sospeso nel fragile tragitto dell'esistenza. Nonostante il buio completo attorno, Peter non faticò a trovare l'urna dell'amata, agevolato dalle modeste dimensioni di quel cimitero di poche anime. Arrivato che fu di fronte all'iscrizione funebre che decretava sulla sua pietra tombale, le date di nascita e trapasso di colei che fu la sua unica ragione di vita, cominciò a scavare come un ossesso, prelevando intere zolle di terriccio reso molle dalle recenti piogge, con la veemenza di chi è vittima di ossessioni morbose ma la tranquillità del sapere di non venir udito o disturbato, in quell'angolo di pace distante dal mondo caotico e dalle distrazioni dei vivi. Quando giunse al coperchio della modesta bara di legno ad appena un metro e mezzo dalla superficie con ancora strati di polvere di terra disseminata caoticamente sopra, fece leva con la punta in metallo della pala stessa per scardinarlo ed aprirlo prontamente con la complicità dell'esiguo numero di chiodi utilizzati per serrarlo. Quando il coperchio si aprì, un pungente e fetido miasma di putrefazione si introdusse insolente nelle sue narici, riportando alla mente immagini di acidità e dissoluzione degli organici elementi ma la convinzione con cui si adoperò, valicò qualsiasi dubbio e remora dell'ultimo istante e lo assistette nella audace presa del cadavere ossuto ormai alleggerito perchè ridotto ad uno scheletro privato del volume corporeo. Lo prese, lo abbracciò, lo caricò sulle spalle estraendolo dal suo letto. Ricoperse la buca, spianò la terra con la base della pala, si assicurò puntandovi la torcia che il sacrilegio dell'esumazione appena compiuta, non destasse sospetto e sdegno alcuno e, riafferrando lo scheletro della sua amata e ricaricandolo sulle proprie spalle, si preoccupò di uscire da quelle mura. Tornato a casa, chiuse tutte le tapparelle per celare la violazione compiuta da sguardi indiscreti, accese poi la luce e appoggiò lo scheletro nel divano del soggiorno. Lo fissò. Lo mirò a lungo. Si accese una sigaretta e agevolò tra i cerchi di fumo che si espandevano intorno, la propria riflessione. Colse del cadavere che aveva innanzi, il trapassato fascino, la corrotta bellezza che nulla recava su di sè del trascorso fulgore. Argomentò tra sè che quello di fronte a lui sarebbe potuto essere lo scheletro pur di una persona qualsiasi, scambiata per sbaglio dal becchino tanto aveva cancellato sulla propria immagine ogni più timido segno di riconoscibilità, nell'ombra della morte che getta il suo drappo nero su ogni individualità, assottigliando il tutto ed equiparandolo al nulla. Lo osservò attentamente preoccupandosi di non trascurare dettaglio alcuno ma non riuscì ad individuare un seppur infimo profilo di riconoscimento neppure nella dentatura marcita di quell'ammasso di ossa senza più volto. Si convinse poi che quelli di fronte ai suoi occhi increduli e sconvolti, erano pur sempre i resti di colei che lacerò irrimediabilmente il suo cuore innamorato e la afferrò, la alzò, la abbracciò, la baciò nel cranio disincarnato e la portò nel letto, adagiandola su quelle lenzuola che avevano assistito ai loro migliori momenti di passione, consumata nei fervori dell'amore in vita. Maupassant diceva che il letto è tutto ciò che ci assiste dal principio al termine della nostra esistenza perchè tutto facciamo nel letto: nasciamo, ci ammaliamo, amoreggiamo e infine moriamo in un letto. Quell'oggetto apparentemente così innocuo, ma testimone di tutte le nostre gioie e afflizioni, imperterrito compagno di vita, doveva quindi divenire anche il luogo dove consumare l'ennesimo atto d'amore, reso estremo solo dalla prematura morte sopraggiunta anzitempo. Fu così che decise di portarsi appresso quello scheletro, abbracciarlo, avvolgerlo con le proprie membra, baciarlo sulla dentatura perpetuamente, sfacciatamente e audacemente sfoggiata in tutto il suo assoggettamento alla corruzione, e di deflorare ancora ma quel bacino di ossa ormai privato del tepore della carne, ormai estinto dall'opportunità di scovarne il canale del piacere, essendo esso stesso deturpato del suo strumento vitale di perpetuamento della specie. Ad un tratto si accorse che quel rapporto necrofilo così maldestramente improvvisato, fu ridicolo e quanto mai lontano dal sembrare attraente. La donna che amò in vita, aveva irrimediabilmente perso tutto il suo fascino, non inoltrandone dettaglio alcuno oltre il confine della vita terrena. Ogni peculiare segno di individualità era stato impunemente cancellato dalla morte, che annichilisce tutto non curandosi di nomi nè dinastie, titoli o storie nè di distinzioni corteggiate altrimenti in vita. Assentì con sopravvenuta impotenza alla consapevolezza di aver appena tentato scioccamente di avere un rapporto con uno scheletro qualunque, che sarebbe potuto essere di chiunque. Percepì allora anche i limiti di un amore che era parso, sino a quel momento, di non averne alcuno; accolse la corruttibilità di ciò che appariva incorruttibile e il potere invincibile di una morte che spoglia anche l'amore, dopo avergli conferito ossigeno solo con le illusioni della mente drogata di chi l'amore lo prova e quindi così lo genera inconsciamente ma unicamente nella prigione della sua mente visionaria. Capì che ciò che i vivi chiamano amore in realtà, di fronte al passo estremo della morte, è solo illusione e fragilità, inganno della mente viva, assoggettato al disincanto del trapasso. Quando si rese consapevole anche della fragilità di ciò che pensava fosse più forte della stessa morte, non potè che corteggiare la coscienza della fine del senso stesso della sua esistenza ed il conseguente desìo dell'autodistruzione, perito l'unico movente che dava a quella stessa vita un significato. Fu allora che prese una corda. La legò saldamente e scrupolosamente ad una trave del soffitto e ancor più tenacemente intorno al proprio collo, preparandosi a scaraventare la sedia sotto i suoi piedi con un calcio che avrebbe presto decretato la fine di un'esistenza vissuta solo al cospetto di un inganno.

Emmanuel Gravier Menchetti.

lunedì 28 luglio 2014

OPETH - "PALE COMMUNION" (2014)




Che il signor Mikael Åkerfeldt fosse uno dei più nobili collezionisti di vinili al mondo (insieme a un certo Rob Halford) non è certo una novità, che fosse un grandissimo estimatore del progressive dei gloriosi, geniali anni '70 non è novella dell'ultim'ora, che amasse principalmente quello italiano una notizia che non dovrebbe certo stupire chi conosce le passate glorie di questo movimento, che questo amore sia sfociato nelle sue stesse composizioni solo al decimo disco del suo gruppo un po' .... questo si mi stupisce ma lo capisco anche perchè questo oscuro signore, che nei palchi di tutto il pianeta diffonde il suo essere anti-palco, ha sempre condiviso questo amore per poliritmie di tempi dispari e barocchismi strumentali con il non meno nobile amore per il death metal più oscuro, misantropo ed efferato. Ciò che invece torna a stupirmi è l'immenso valore artistico con cui ripropone quelle sonorità, non solo inteso come maestria tecnica sua e del suo grandissimo gruppo di cui vorrei sottolineare le doti del batterista Martin Axenrot e del bassista Martin Mendez, ma soprattutto come idee compositive e di arrangiamento che sono la componente principale di questo splendido genere musicale che si basa proprio sulla genialità, sul continuo imprevisto, sull'effetto sorpresa, sulla rottura degli schemi classici strofa-ritornello-inciso tipica del rock e del pop invece più scolastico e commerciale per dare più spessore alla parte strumentistica. Il canto, per così dire agli strumenti ma quest'uomo, nel pulpito di una dimensione intellettuale ed intelligente, conoscitiva e ricercatrice della musica lontano anni luce dal poserismo dei cretini dell'hair metal, così distante e superiore ai clichè della finta vita da "rockstar" basata solo sull'ignoranza e la menzogna, così poco comunicativo con il pubblico e così poco portato a calcare il palco, in realtà è nato in una lampada e ha regalato all'umanità dischi memorabili carichi di una melanconia, di uno spessore strumentale, di un vero amore per la musica e per la forma-canzone di una canzone senza forma intesa nel suo senso limitativo ma come invece porta, opportunità per gli strumenti di evolversi al meglio. Il suo progressive come il suo death prog dell'epoca pre - Heritage (recensito sempre dal sottoscritto in questo stesso blog...cercate cercate..!!) è un linguaggio musicale evoluto, capace di indurre la mente dell'ascoltatore allo splendore della riflessione, della filosofia trasformando la stessa musica da arte in SCIENZA perchè anche questo è la musica, la scienza dei suoi tempi astrusi in 33/8 del grandissimo brano "Goblin" che richiama ciò che di meglio ha proposto il nostro paese più di 40 anni fa, qui magicamente richiamato con la giusta ambizione di stravolgerlo ancora. Se questo disco, come il precedente Heritage, fossero usciti nel 1972 e nel 1973 anzichè nel 2011 e nel 2014, sarebbero dischi che avrebbero sconvolto il mondo. Ho sempre tenuto d'occhio questo gruppo per la sua genialità che si dipanava sin dagli inizi tra le miriadi di gruppi death metal che da 25 anni inflazionano la scena. Adoravo gli Opeth quando suonavano death prog, li adoro ancor di più ora che suonano un prog puro che ritorna alle sue origini e si compiace del suo spessore artistico ineguagliabile, trascinando il combo svedese in un sentiero iniziato col precedente album e che ora non li riporta più indietro perchè ha messo a nudo le incredibili facoltà di questi musicisti IMMENSI. 

VOTO: 10 E LODE

Emmanuel Menchetti.

mercoledì 2 aprile 2014

CYNDI LAUPER - LIVE IN PARIS 1987




La mia apertura musicale non mi esime dal recensire anche generi musicali che potrebbero essere considerati distanti dai miei ascolti più abituali, se non altro intesi come casistiche o come percentuali sul totale. Fatta questa necessaria premessa non posso che rimanere sconvolto dalle qualità vocali di questa artista e dal grande amore che traspare per il canto quando la si guarda dal vivo, filmata qui nel suo periodo di massimo splendore ossia nel tour del suo secondo disco da solista "True Colors". La luce del palco la segue mentre la regina del pop balla, si sbatte da una parte all'altra del palco e si lascia amare dal pubblico; sì... quello che mi coinvolge è la sua amabilità, si vede che è una donna veramente sensibile che ama la sua musica e il suo pubblico e il pubblico riflette su di lei tutto questo amore perchè la gioia e la vera passione è speculare, si sente e si spande sugli altri e si riverbera per poi tornare più forte. Il palco è per lei un gioco, il suo gioco su cui si commuove denudandosi sotto i riflettori e mostrando tutta la sua tenerezza. La sua voce è uno strumento perfetto e la band che la sorregge è assolutamente impeccabile. L'arte è oggettiva e ciò che ho appena detto è oggettivo, poi la percezione soggettiva e l'eventuale apprezzamento sono requisiti spesso limitati al solo retaggio culturale che lascio alla propria discrezione personale. Io ritengo che la musica sia emozione, aldilà di qualsiasi genere trattato, colore o sonorità. Una grande artista che ha cantato capolavori del genere come "She bop", "Time after time", "Change of heart", "True Colors", "All through the night" e l'immancabile "Girl just want to have fun" (colonne sonore degli indimenticabili e stellati, magici eighties) più qualche riempitivo di condimento su dischi che hanno spopolato le classifiche. Un' interprete eccezionale. Un' artista divina. Una persona splendida.

VOTO: 9

sabato 29 marzo 2014

NEKROMANTIK 2 - Jörg Buttgereit. - Germania . 1991



Non tutto ciò che è estremo, raccapricciante, indecoroso moralmente, perverso, degenerato, eccentrico e orrendamente bizzarro genera ripudio e non tutto ciò che genera ripudio nega il retrogusto del piacere estetico. Questo film tratta il pericoloso tema della necrofilia con un piglio molto naturale, normalizzandolo nella vita quotidiana di una infermiera che ha solo il vizio di guardare scene di smembramento di animali e ama fotografare umani in posizioni impreviste, oltre ad amare i morti. Amore che si acumina nel suo dilemma fatale tra il cadavere del suicida Rob di cui aveva seguito il caso e di cui si era innamorata e un doppiatore di film porno, ancora vivente, conosciuto per caso all'ingresso di un cinema. La risoluzione di tale dilemma sarà un macabro connubio tra le due figure, mosaico di intenti tale da soddisfare le sue eccentricità di libido. Non so per quale motivo questo film ipnotizza, non lo so spiegare, posso ammettere di essere attratto dai morti anch'io, ma ti conduce magicamente al suo epilogo senza farti perdere l'attenzione. Un cult.

VOTO: 6,5

venerdì 28 marzo 2014

"I, Zombie - A Chronicle of Pain" - Andrew Parkinson - Gran Bretagna - 1998



Se ci si scrolla saggiamente di dosso la prima banale impressione di trovarsi di fronte ad un b-movie o ad un film di bassa qualità, ma lo si guarda tutto con coinvolgimento, ci si accorge che quell'iniziale impressione negativa era solo data dalla particolarità di questo film che esula dai classici film di zombie di romeriana e fulciana memoria, per spostarsi verso lidi più "english style", colmi di introspezione dei personaggi, psichedelia un po' "trainspottiana" e che sposta il baricentro dell'attenzione dalle vittime allo zombie stesso, divenuto ora protagonista del film con le sue paure e paranoie in una sorta di "umanizzazione" del mostro sanguinario, tale da suscitare animosità o sentimenti di pena nei suoi confronti. Insomma, non un brutto film; un film diverso. 

VOTO: 6,5

domenica 16 marzo 2014

RICK WAKEMAN - LIVE AT HAMMERSMITH (Official) - 1985






Si è soliti pensare che il vero critico d'arte sia colui che ama l'eccentrico, l'eclettico, il bizzarro, l'incompreso e imprevedibile quasi a sfiorare il blasfemo o l'irriverente e comunque tutto ciò che si allontana dall'uniformità di genere e dall'avallo della massa e questo sia nel cinema che nella musica, nella pittura o in quant'altro. Aldilà di ogni considerazione di merito, questo è uno di quegli artisti con un tocco riconoscibilissimo sullo strumento, una personalità inconfondibile e un estro armonico-compositivo tutto personale oltre che dotato tecnicamente in modo strabiliante. Le geometrie ritmiche sono anch'esse di particolare interesse, miscelando sapientemente le parti strumentali con quelle cantate (peraltro magistralmente) in un'architettura di assoluta pregevole fattura. Che venga eletto barone e poi Re d'Inghilterra, orgoglio nazionale e sia festeggiato il giorno della sua miracolosa e provvidenziale nascita come festa nazionale inglese. Un monumento, un'istituzione di cui essere fieri. Impersonificazione della musica stessa scesa sulla terra per insegnarci cosa sia il dono dell'arte e per ammonirci a ringraziare la natura di averci donato l'udito, il più sottile e cerebrale dei nostri sensi. Un maestro di musica e di vita. 

VOTO: 10

domenica 9 marzo 2014

RECENSIONE CINEMATOGRAFICA: "DARK STAR" - John Carpenter (1974)





Chi segue il mio blog sa che non sono propriamente un amante di Carpenter, non certo di quelli che si masturbano sui suoi film; a parte qualche perla di rara bellezza (La cosa, Halloween - la notte delle streghe, Essi vivono, 1997: fuga da New York, The Ward - Il reparto) in cui sembra che l'animo del regista sia stato come ipnotizzato e impossessato da un incesto tra un Kubrick ispirato e un Cronenberg d'annata, il resto della sua produzione si assesta su un livello di mediocrità che sfiora la demenzialità in cui non è ben chiaro se il regista ci voglia fare opportunamente ridere con le sue schifezze oppure non lo faccia apposta a girarle così male il che suscita una risata non prevista di derisione da parte dello spettatore. Beh... diciamo che con questo esordio cinemtografico il Nostro ha raggiunto l'apogeo dello schifo e dell'inutilità. Non era partito proprio bene insomma e se questo film l'avessi avuto in dvd o vecchia vhs... lo avrei dato in pasto ai maiali. 

VOTO: 1.... no ho cambiato idea... 0 (non è la o di oca)

Darkness in the forest 

mercoledì 26 febbraio 2014

MIO RACCONTO - "IL VIAGGIO"

"....Ti prego, aiutami, ho bisogno di trovarmi una sistemazione, un lavoro....una nuova vita!" - così terminava la lunga missiva con cui Jacques tentò di spiegare a sua zia Brigitte, la propria condizione priva di futuro, dopo la morte dei genitori in un incidente aereo. La mancanza di un lavoro che lo potesse sostenere, l'affitto da pagare in una casa rimasta luttuosamente vuota in seguito alla improvvisa disgrazia, lo spinse alla disperata scelta di un'emigrazione, vista come l'ultima via d'uscita da una situazione insostenibile di povertà altrimenti sicura, di solitudine, senza più appoggi. Jacques era un ragazzo ancora giovane, appena diplomato, inesperto in qualsiasi lavoro che potesse dar da mangiare invece ad un uomo divenuto indipendente, nelle selvagge regole non scritte di una società sempre più simile a una giungla senza diritti; si sentiva come vergine di fronte alla prima ludica occasione di conquistarsi una donna, abituato solo a comportarsi da bambino, avvezzo unicamente al farsi mantenere, non per colpa, ma per eccessivo amore dei genitori improvvisamente scomparsi, unito alla triste sorte degli eventi che nulla rassicura ma tutto lascia al caso. Chi si sarebbe ora preso cura di lui in seguito alla traumatica amputazione del cordone ombelicale che lo legava alla madre, in un ventre materno rimasto vuoto e senza più le sue mura ristoratrici? Chi mai avrebbe dato un lavoro ad un ragazzo inesperto senza qualche conoscenza o appoggio paterno? .... e a chi chiedere aiuto se non a quella strana zitella che rispondeva alla figura della sorella materna, rimasta vedova in seguito alla grave malattia degenarativa che colpì il marito molti anni prima? Era costei una donna ormai vicina alla soglia che, pur rispettosamente, può essere definita anzianità, sofferente di quella inguaribile malattia cronica chiamata depressione o meno drammaticamente nostalgia e che affligge le menti delle persone rimaste sole oltre una certa età, quando ormai le speranze e la ingenua visione del futuro lasciano spazio al solo cinismo e alla certezza, pur talvolta presuntuosa, sul corso degli eventi nonchè alla conseguente malinconia del passato, rivissuto mentalmente sempre come migliore rispetto al presente e in relazione a quello che obiettivamente fu. L'inattività lavorativa sopraggiunta in seguito all'età e permessa dalla reversibilità della pensione del marito deceduto, non fece altro che infuocare tale nostalgia e considerazione del passato. Il senso di inutilità unito alla nullafacenza, il conseguente tempo rimasto per pensare, consegnato all'improduttività e tolto per contro al lavoro e all'attività mentale, unito a quella triste fase del nostro tempo in cui la mente è propensa più a ricordare che a produrre per il presente, portarono la zia Brigitte ad uno stato di solitudine divenuto ormai insopportabile e tale per cui, la morte dell'amata sorella e l'occasione che questo le porse, quasi le sembrò più un'opportunità di riscatto che un vero e proprio lutto al quale inginocchiarsi in modo impotente. Del resto, tutti dobbiamo morire, questo le aveva insegnato il pervenuto cinismo, lontano anni luce dalle gaie ingenuità giovanili, ma pochi sanno invece che anche a un certo punto dell'esistenza, quando tutto sembra ormai irrimediabilmente spento e terminato, la vita ci possa presentare ancora un'occasione e questo la donna pensò. L'opportunità fu il potersi circondare di una persona giovane che le facesse compagnia e il fatto che il proprio nipote, rimasto orfano, le chiedesse egli stesso aiuto, le parve la materializzazione di una mano dal cielo. Per comunione di interessi sembrava che i loro destini si fossero irrimediabilmente incrociati in modo ormai indissolubile. Superato il dolore per la perdita della sorella, Brigitte fu come ristabilita moralmente quando lesse la lettera del nipote. Quale migliore occasione per potersi circondare del calore di un'altra anima in una casa rimasta vuota da anni, in mezzo alle Alpi francesi, vicino al confine italiano, in un paesino di una decina di altre piccole dimore? Di certo Jacques non avrebbe potuto trovare facilmente una nuova occupazione in un villaggio di contadini sperduto nella purezza di quelle montagne così ospitali ma inaccessibili, ma la pensione della zia unita alla economicità di una vita vissuta comodamente in una casa di proprietà, avrebbe loro permesso di attingervi comunque dignitosamente, preoccupandosi solo di curarsi della necessarietà delle faccende domestiche. Il fatto che Jacques non avrebbe mai più trovato un'occupazione in quel verde immerso nella saggia tranquillità della natura più incontaminata, in un certo senso, rassicurava pure l'anziana donna dal timore di ritornare sola. "Ti prometto che se un giorno ne avrai bisogno, io ti aiuterò, noi ci aiuteremo!" - ricordò la frase della sorella detta quando erano bambine. Quella le sembrò pure l'occasione per mantenere la reciproca promessa fatta. La sorella sarebbe stata felice di lasciarle il proprio cucciolo e Brigitte era orgogliosa di aiutarlo, anche pensando a lei. Le argomentazioni che ci portano a fare delle scelte spesso smuovono considerazioni, desideri anche inconsci, talvolta contrastanti, più di quanti consapevolmente si pensa di contemplare. Jacques dal canto suo, vide in quella donna la sua salvatrice, la predestinata a dare un alito di nuova linfa alla sua condizione altrimenti priva di speranza. Era già stato in vacanza da piccolo nella casa della zia, quando ancora il marito della donna era vivo, ed il ricordo delle passeggiate col cane in quei sentieri sotto i quali pareva che si propagasse l'intero mondo, visto dal punto più alto, come dal suo probabile tetto, lo colmò di entusiasmo con la suggestione della montagna più pura, dei paesaggi più incontaminati, delle distese erbose tra gli alberi, negando la confusione cittadina che ci distrae dalla reale ricerca del nostro io e che sola può essere esaudita nell' incontro con la natura selvaggia dalla quale proveniamo. Con questa speranza di riscatto della propria vita dal lutto familiare, Jacques fece presto la valigia e partì per le Alpi, libero ormai da preoccupazioni di sopravvivenza. Appena arrivò nella ritirata dimora della zia, tra le selve e le rocce di quelle montagne imponenti che pareva rivendicassero la loro libertà dall'umano presidio, rivide la casa esattamente come se la ricordava. Riconobbe la carta da parati a fiori rosa stesa sulle mura, la vista frontale sui prati che, quasi fossero tappeti verdi, parevano gettati come da una mano divina nel baratro della valle sottostante, circoncisa da montagne maestose che gettavano le loro oscure ombre sulle foreste e sulle casupole disseminate, arroccate nei loro fianchi. Rivide il giardino sul retro che accoglieva il principio di un bosco, i cui sentieri erano appena visibili nell'ombra gettata dai rami contorti e invitavano all'escursione a chi si trovasse affacciato alla finestra della cucina. Riconobbe il soggiorno, la terrazza frontale, il pianoforte verticale mai utilizzato di fianco alla porta del bagno, il lampadario di cristalli nel salotto. Tutto come nella sua visione infantile di tanti anni prima. Era una piccola casetta nel mezzo del verde, una dimora umile nelle dimensioni ma signorile nello stile e nell'arredamento ed in questo il ragazzo individuò il tocco materno. Vide in quella donna che gentilmente lo ospitava, come una nuova madre e nei momenti in cui la sua fantasia era sovraeccitata, come la possessione dello spirito materno che lo accoglieva nuovamente nel suo grembo, al riparo dalle leggi ingiuste della morte che, nelle nostre paure, tutto dovrebbero solo annichilire, senza riscatto alcuno. Quando l'immaginazione, in una mente rimasta ottenebrata dal lutto o dalla sterile apatia, smette di lavorare, la morte ha già dettato la sua venuta sugli altrimenti incustoditi prati della vita. Brigitte invece non rivide lo stesso bambino indifeso di un tempo, ma si accorse, da subito, di trovarsi di fronte ad un piccolo uomo, con una rinnovata voce gutturale, un busto formato, delle gambe ben più lunghe di quelle piccole e gracili che ricordava quando era venuto la prima volta nella sua casa. Notò le braccia magre ma longilinee e un'altezza che complessivamente superava la sua e per la quale avrebbe dovuto volgere la testa verso l'alto per incontrare quello sguardo divenuto così maturo, privo della primigenia ingenuità di tenero ed indifeso infante, un poco velato di tristezza per il probabile decorso degli eventi, ma non anche privato di nuovo fascino e rinnovata luce nella quale guardare il sopraggiunto nipote. Si accorse di individuare una sorta di bellezza nel ragazzo, quella forma di corresponsione dei piaceri che si prova per chi si pone al proprio pari in un eventuale dialogo o incontro e non solo come un probabile figlio che susciterebbe per contro, solo la necessarietà dell'aiuto e dell'assistenza ma non anche dell'armonia reciproca e ugualitaria. Si stupì di notare questa nuova verità, quando lo vide in mutande per la prima volta, mentre entrava in cucina per la colazione. Il sole brillava quella mattina di una infuocata primavera, irradiando la sua luce rivelatrice dalla finestra in cui aveva accidentalmente tirato le tende e il conseguente fulgore, tradiva il potere attrattivo di quel giovane corpo, unito alla condivisibile piacevolezza del viso, pur ancora assonnato. Del resto il ragazzo era cresciuto, erano passati svariati anni da quando lo aveva conosciuto la prima volta ed era chiaro che si sarebbe presentato in un'ottica nuova. Per questo non si sentì colpevole per ciò che avvertì, ma anzi sciocca per il fatto di percepire la sorpresa di ciò che era una inevitabile legge incorruttibile della natura nel miraggio del tempo. La magia dell'infanzia e dell'adolescenza è tale per cui un ciuffo sparuto di anni sia già sufficiente per modificare radicalmente le sembianze di una persona e tale per cui tutto corra molto più velocemente verso il rinnovamento continuo. Dopo una certa età tutto pare invece rallentarsi, quasi il tempo si fermasse, ma solo in ciò che riguarda i gusti e i sapori che rimangono ancorati alle chimere giovanili e all'illusorietà dei primigeni fermenti ludici. Quando il ragazzo partì quella mattina vestito elegantemente di tutto punto, dicendo di voler raggiungere il villaggio più vicino in cerca di un'occupazione perchè si sentiva "a disagio e inappropriato a rimanere lì a vivere alle spalle della sua pensione", la donna, ripresasi subito dallo stordimento dei precedenti pensieri, gli fece vedere una carta topografica della zona, spiegandogli quali fossero i villaggi più popolosi nelle vicinanze. Gli disse che non c'era bisogno che si preoccupasse di trovarsi un lavoro e che avrebbe potuto rimanere quanto voleva, mentre gli preparò una sostanziosa colazione a base di uova, caffè e prosciutto. Lui rispose che non se la sentiva di approfittare della sua gentilezza, la ringraziò, la baciò sulla guancia, avvertendone l'inebriante effluvio nell'aria e se ne andò. Quando chiuse la porta dietro di sè, Brigitte sentì come il bisogno di andare alla finestra del soggiorno per guardare fuori. Lo vide allontanarsi sempre più nel sentiero, in cerca di una speranza che probabilmente non avrebbe esaudito. Si accorse di dispiacersi per questo e se ne stupì. Quella mattina, rimasta ancora sola in casa, ebbe poi un sentimento contrastante con quella precedente afflizione. La nuova contrapposizione la condusse a pregare dentro di sè che il ragazzo non trovasse invece occupazione alcuna e questo per la paura che si sistemasse nel prossimo futuro in qualche altra dimora, abbandonandola nuovamente alla immancabile solitudine. Si rassicurò poi del fatto che quegli splendidi paesaggi di montagna, avevano, nel loro candore paradisiaco, l'unico difetto di non garantire di certo un lavoro che non fosse l'accudire il proprio giardino o le bestie da pascolo. Tornata la tranquillità per quel rasserenante alibi, si stese sul divano, pensò alle mutande del nipote, alla sagoma del pene un poco eretto del giovane e si masturbò avidamente raggiungendo presto l'orgasmo. Si spaventò del suo stesso gesto, ma non si interrogò, non inquisì la propria azione, non si fece domande sui propri desideri. Le manifestazioni più audaci e talvolta grottesche dei propri appetiti sessuali, non incontrano ostacolo morale, pudore nè pentimento, se vengono vissuti nella loro naturalezza, conformandoli alla loro occasione più consona, senza interrogarsi su di essi. La domanda che potrebbe affliggere una mente educata agli assiomi circostanziali è se può essere consono il fatto di provare attrazione per un consanguineo e per di più molto più giovane, ma la questione che ora affligge il mio essere narratore esterno, non disturbò invece la mia protagonista, non a tal punto almeno da indispettirla con lucide e fuorvianti elucubrazioni filosofiche sull'essere, tali da annichilirne quindi l'istinto. Quando il ragazzo tornò alla fine di quella giornata, stanco e sopraffatto dallo scoraggiamento di vedersi negare la speranza di un lavoro, lei lo guardò negli occhi, come nulla fosse successo, lo ristorò con un buon pasto e un buon vino, guardò la televisione di fianco a lui, gli augurò la buona notte. Gli disse di non preoccuparsi, che la sua pensione sarebbe bastata anche per due e che si sarebbe presa cura di lui. Alla quarta notte, gli chiese di dormire con lei nel letto matrimoniale, nel posto lasciato incustodito dal defunto marito. Lo convinse con argomentazioni fantastiche, dicendo che si sentiva sola, che aveva paura dei suoi stessi incubi. Non dovette affaticarsi tanto per trovare delle giustificazioni alla sua richiesta poichè il ragazzo, preso come da una sorta di servilismo, dettato dallo scrupolo conseguente al senso di colpevolezza nato dal farsi mantenere senza portare denaro in casa, era sempre pronto ad accettare qualsiasi condizione di sopravvivenza, alternativamente alla quale, temeva di trovarsi nel mezzo di una strada. Quella notte lei dormì abbracciata al nipote. Lui rimase steso senza muoversi, rivolto con lo sguardo verso il lampadario della camera, come per paura di svegliare la zia, muovendola da quella posizione così curiosa. Riflettè sulla sua condizione. Non si chiese il perchè delle eccessive attenzioni della donna nei suoi riguardi. Pensò che era la sorella della propria madre e questo la faceva sentire più vicina. Argomentò nel silenzio dei propri dubbi notturni, che avrebbe dovuto accettare qualsiasi stravaganza della anziana parente. Quando la gamba di questa strisciò forse accidentalmente sul pene del ragazzo coperto solo da una sottile mutanda, visto il caldo primaverile di quella notte, lui ebbe un'erezione. Un poco si vergognò del fatto. Si convinse poi che la donna stesse solo dormendo e che non se ne sarebbe accorta. Non se ne preoccupò quindi più di tanto e quando la lieve eccitazione si calmò, si addormentò anch'egli tra le braccia della donna. I giorni successivi notò che gli sguardi della zia erano sempre più incisivi, come a voler scrutare ogni pensiero, le domande sempre più frequenti. Una mattina lasciò pure la porta del bagno distrattamente socchiusa, pensando che fosse uscita e si masturbò di fronte allo specchio. Vide ad un tratto nel riflesso di questo, un occhio che lo guardava dalla fessura lasciata aperta. Nel momento si arrestò subito e si sentì rapito da una sorta di panico. Poi però quando raggiunse la donna in cucina mentre preparava il pranzo, per verificarne lo stato d'animo, la vide sorridente e si rassicurò. Percepiva qualcosa come di eccessivamente femminile nella zia, di quella femminilità che è tipica ancora delle età sessualmente floride e che coincide con l'impudicizia. Per una strana causa si sentiva sempre più intimamente legato a lei e si convinse che il senso di vergogna e pudore avrebbe solo cementato un inutile muro tra i due. Lei lo guardava spesso. Anche lui la guardava in quella sua vestaglia mattutina a fiori come la carta da parati e profumata di gelsomino. In fondo anch'egli si trovava in una forzata condizione di astinenza tra quelle montagne pudiche e desolate che ombreggiavano castità sui boschi selvaggi e sulle casupole diradate, lontano dall'umana perdizione, portatrice unicamente di peccato ed effimere delizie. Alla sua giovane età, aveva bisogno di contatti perpetui con l'altro sesso. La zia si preoccupò invece di limitare al massimo le sue uscite e frequentazioni con le giovani del villaggio, a tal punto da uscire al posto suo per fare la spesa o per recarsi a comprare le medicine. Sembrava che tentasse di allontanarlo anche dal contatto con le proprie figlie, le quali telefonavano spesso per avere notizie della madre. Una sera lei preparò una cena perfetta in ogni dettaglio. Comprò del pesce, che non era facile trovare in paese. Lui capì che era andata sino in città per trovarlo, percorrendo svariate miglia. Lo inondò pure con dell'ottimo champagne. La cosa più curiosa non era tanto la selezione delle pur ricercate pietanze, ma la eccessiva accuratezza estetica con cui scelse le tovaglie, le posate, i candelabri, l'abbinamento dei colori per trattarsi di una cena da sola o con il proprio nipote. Capì che aveva acquistato anche le posate per quell'occasione o che le aveva ritirate fuori dall'epoca in cui civettava ancora col marito. Tutto odorava di malizia ed erotismo, più che di innocente devozione all'estetismo o senso artistico della superflua minuzia e del dettaglio non proprio culinario. E quel suo profumo sempre addosso, lo valutò come eccessivo per giustificare una mera vanità o ricerca del piacersi o per una futile sorta di formale educazione nei confronti di un ospite ed eppure per giustificare una semplice paura di trovarsi a disagio al cospetto di un giudizio esterno. Poi lei sfiorò col piede la sua gamba senza chiedergli scusa per il gesto ... e lui capì. O meglio si lasciò andare anch'egli, infiammato dallo champagne e dalla castità forzata. Scaraventarono le posate per terra, sventolando la tovaglia come fosse il fazzoletto di fronte al toro inferocito nella corrida e l'impeto reciproco gettò la legge dell'insania su di loro. Lui la penetrò svariate volte sul tavolo con estrema veemenza, facendole sbattere la testa contro lo sportello del frigorifero. Lei non sentì dolore ma solo piacere che si liberava dopo anni di frustrazione. Lui sfogò sul corpo consanguineo della zia, la sua ira giovanile avida di piacere e di esperienza. Poi si ricomposero. I loro sguardi non si incrociarono quella sera, come per una sorta di vergogna. Dormirono ancora insieme quella notte. Il giorno dopo fecero finta di nulla, non si interrogarono sull'accaduto ma lo assimilarono saggiamente come fisiologico alla forzata convivenza. Non si domandarono alcunchè nelle segrete stanze della propria intimità. I giorni passarono felici. Una settimana dopo riebbero un altro rapporto sessuale. Questa volta in camera, sul letto matrimoniale. Fu tutto più tradizionale e conforme rispetto alla veemenza e alla stravaganza della prima volta. Non si chiesero perchè ciò avvenisse ancora. Lui smise di cercare lavoro ma lei non di osservarlo e desiderarlo. Un giorno Jacques incontrò le proprie cugine in occasione di una loro visita e riconobbe nel loro sguardo, quello della loro madre. Erano le uniche giovani ragazze, poco più che coetanee, che gli capitò di vedere dal giorno del suo arrivo. Chiese cortesemente di potersi dissociare un attimo dall'aperitivo. Andò in bagno e si masturbò. Le cugine non immaginarono neanche quello che stava facendo. Non vedevano molto di buon occhio quella convivenza forzata; temevano che il ragazzo si sarebbe approfittato della eccessiva cortesia della madre. Loro non sapevano cosa stava accadendo in quella casa. L'incesto è un tabù e come tale non può essere capito nè tantomeno condiviso o anche solo rispettato fino a quando non ci si rivede protagonisti della sua pratica, ma questo vale per ogni peccato umano. Le fecero notare l'eccessiva durata del tempo trascorso dal momento dell'arrivo del ragazzo senza ancora aver trovato un'occupazione, ma lei le zittì alzando la voce, le accusò di egoismo, le mandò via di casa in malo modo. Col passare del tempo il rapporto tra i due conviventi divenne sempre più solido e anche il ragazzo si legò indissolubilmente alla zia. Faticava sempre più a immaginare una vita senza l'apporto umano della donna e la mancanza di esperienze amorose pregresse, data anche dalla giovane età, lo sollevava dal fardello di un confronto. Non sapeva neanche come sarebbe stato un rapporto con una propria coetanea e con l'avanzare di quel segreto e inaspettato rapporto, se ne preoccupò sempre meno. Quella eccentricità profumata di bizzarria, era diventata la sua normalità e non si chiese perchè il destino gli avesse riservato un decorso così innaturale degli eventi. Quando i suoi dubbi lo tormentavano, riconsegnava il pensiero all'alternativa e, preso da un rinnovato spavento, si riaccasciava nel sicuro rifugio dell'incesto. Un giorno lei scoprì di essere malata e lui le stette vicino, cominciò a fare la spesa per lei e si preoccupò di andare a prendere le medicine in paese ogni mattina. Consultava spesso il medico, preparava la cena, puliva le stanze a fronte della crescente impotenza degenerativa della zia. Non ebbero più rapporti ma lui stava spesso di fianco al letto, tenendole la mano. La baciava sulla guancia, sussurrandole parole dolci e di speranza. La rasserenava. La malattia di Brigitte ebbe un decorso molto lungo e graduale, permettendole di vivere ancora a lungo ma un'esistenza imprigionata nel letto e nel corso della quale Jacques divenne adulto e maggiormente responsabile. Un giorno poi, inevitabile, la donna spirò nel letto su cui si era consumato, ed era cresciuto, come fosse un mostro, il loro reciproco peccato. Il dolore per l'accaduto ebbe un impatto immane sul ragazzo ma non c'era troppo tempo per restare a disperarsi improduttivamente. Dovette presto preparare il funerale con le cugine, che incontrò nuovamente solo dopo quel giorno in cui furono cacciate dalla madre. Lui si rassegnò al fatto che ora avrebbe dovuto andarsene da quella casa in cui custodiva il suo segreto, in cui la sua giovinezza era tramutata in età adulta, nutrendosi di un'esperienza macchiata di perversione, nelle redini di un amore illecito, consumato nelle segrete stanze di una dimora che avrebbe abbandonato, con le sue facezie non dette. Fu inaspettatamente chiamato dal notaio quando stava ancora preparando le valigie, per andarsene senza sapere dove. Quando entrò nello studio del funzionario, incontrò le cugine, irritate e sospettose per la sua presenza. L'incaricato lesse un testamento scritto dalla defunta donna e della cui esistenza, le figlie vennero a conoscenza solo in quel momento. Il volere scritto della madre aveva lasciato l'eredità della casa tra le montagne e di tutti i risparmi di una vita, unicamente al nipote. Le donne sfogarono la loro rabbia contro il beneficiario, annunciarono causa, lo maledirono e se la presero anche col funzionario. Jacques uscì dallo studio tra le urla isteriche delle donne con un sorriso beffardo e tornò nella piccola casa che, tra le omertose montagne, celava il suo segreto. Visse felice tra le sue mura. Coltivò l'orto di fronte alla terrazza con costanza e dedizione, diede da mangiare premurosamente alle bestie, commerciò i prodotti del suo giardino nel mercato settimanale del paese. A chi gli parlava nostalgicamente della defunta o a chi piagnucolava per la sua scomparsa in sua presenza, lui lo liquidava con una pacca sulla spalla, asserendo che la morte è inevitabile ma è la vita a essere inaspettata e talvolta imprevedibile.


Emmanuel Gravier Menchetti.