lunedì 30 luglio 2012

RECENSIONE CINEMATOGRAFICA: "AMITYVILLE HORROR" - ANDREW DOUGLAS


Un discreto sequel tra i tanti che hanno inflazionato il mercato dopo il fortunato film che originariamente, nel 1979, ebbe notevole successo di critica e botteghino. Una storia sempreverde, affascinante, tipicamente settantiana sulla scia dei film dell'epoca sulle possessioni demoniache e sulle infestazioni degli spiriti di persone uccise di morte violenta rimasti imprigionati negli ambienti che di quei primigeni orrori, sono stati teatro. Una trama che protrae infinitamente il suo fascino sino ai giorni nostri in un rifacimento più moderno, maggiormente colorato negli effetti ma ormai consunto nella sua ancestrale attrattiva tematica.

EMMANUEL MENCHETTI
 VOTO: 7.

RECENSIONE MUSICALE: "THE FINAL DAY" - ODESSA





Prima regola di un giornalista che dovrebbe trovarsi alle dipendenze di un direttore di redazione (ma che vi assicuro non viene mai rispettata), così come regola fondamentale di un blogger come me, ormai subordinato solo a sé stesso, è il sacrosanto comandamento di non farsi mai condizionare nel giudizio dalla pomposità dell’etichetta che produce la band (la cosiddetta legge anti-corruzione di immunità dalla mafia discografica delle major), dalla magniloquenza storica della stessa formazione che si recensisce, dai ricordi emotivi personali legati all’ascolto di determinate canzoni e (come in questo caso) dalle amicizie sparse tra i musicisti ivi coinvolti. Dato che, salvo che per non rare eccezioni, mi ritengo una persona seria (solo quando si parla di arte), non mi esimerò dall’obbligatorietà morale della obiettività, per quanto umanamente difficile. Premesso questo, devo dire che sin dalle primissime note di “The Final Day”, risulta subito chiaro che gli amici in questione, non siano certo dei gretti e ripugnanti compagni di chiacchiere al bar, ma tutt’altro. Qui signore e signori ci troviamo al cospetto di veri musicisti che vantano una raffinata eleganza compositiva, si pavoneggiano in un geniale gusto e inventiva, essendo capaci di forgiare opere e assemblarle in affascinanti arrangiamenti mai esageratamente e pacchianamente  virtuosistici, confezionati saggiamente in parti strumentali dosate e incastonate tra melodie vocali immediate. Già da qui, per un orecchio un poco esperto, risulta evidente il messaggio che i quattro ragazzi marchigiani ci vogliono trasmettere ossia quello di sapere di essere dei musicisti tecnicamente eccellenti, ma per questo non meno attenti all’economicità e all’ottimizzazione della forma-canzone. E’ ciò  del resto che fa la distinzione tra un puerile e volgare ragazzino preso solo da virtuosismi e alla ricerca di una chissà quale improbabile gloria personale, in un mondo distratto e caotico che invece getta tutti indistintamente nell’oblio, e un musicista esperto che sa invece come districarsi in questa sovrappopolata giungla nemica dell’individualità di ciascuno, esprimendosi in funzione della musica ed a beneficio dell’ascoltatore. Le influenze provenienti dal progressivo italiano (di P.f.m., Rovescio della medaglia, Le Orme e Area su tutti) a cavallo tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ’70, che hanno contraddistinto la stoffa di questa formazione sin dalla loro nascita nella seconda metà degli anni ’90, sono, in questo secondo lavoro sulla lunga distanza, un poco più lontane ma mai del tutto sparite: si pensi alla tecnica vocale che fu di Stratos, presa in prestito dal buon Giovagnoli nella ambiziosa ma non stucchevole né scevra da inopportuni azzardi (nonché resa salva quindi dall’imbarazzo!!) interpretazione di “Cometa rossa”, alle parti strumentali di sapore barocco dove le chitarre svettano agili e convincenti su scale eccentriche e pompose, magniloquenti, un poco auto-reverenziali, rincorrendosi  però in un duello polifonico con le tastiere e ricongiungendosi poi nell’armonizzazione del tutto, ma sempre in modo dosato con la saggezza del musicista che è anche musicologo, e mai sovreccitato o antipaticamente superbo, ma ottimizzato in qualcosa di usufruibile anche grazie alla timidezza caratteriale che li contraddistingue, ai tempi dispari incastonati sapientemente tra le melodie portanti in un qualcosa di mai volgarmente strabordante. Il gradevole ascolto di questo disco non ci risparmia anche da qualche venatura di sapore reggae, jazz, funky e soul e, diciamocela, anche da qualche lieve strizzatina d’occhio ai ritornelli pop di facile presa, in un pasto finale dal sapore variopinto e multietnico, sempre filtrando il tutto attraverso quella caleidoscopica lente, onnipresente nelle loro composizioni, colorata di tinte vintage, un poco anacronistiche per questi tempi, dove i signori Giulio Vampa, Valerio De Angelis, Marco Fabbri e Lorenzo Giovagnoli, si mostrano non disattenti alle culture di più stili musicali in varie epoche della nostra storia, eppure (lo so che scrivo periodi troppo lunghi ma portate pazienza, la lettura delle mie pagine deve pur essere un sacrificio!!) riescono ad essere maledettamente e magicamente personali e riconoscibili tra i tanti che si avventurano, con più o meno successo, in questo affascinante mondo che è la musica progressiva. La produzione, affidata al buon Luca “Ciozzi” Maroncelli, risulta discreta anche se, a mio avviso, è un po’ troppo asciutta nel suono della batteria e nell’uscita della voce, rendendola un poco fredda e secca e adombrando l’altrimenti grandezza dell’opera, con una lieve parvenza di quella amatorialità tipica del demo un po’ artigianale,  prontamente però smentita dallo spessore artistico ivi contenuto, ma questa è una scelta puramente stilistica che rientra nei gusti, credo, della band nonché di Mr. Ciozzi. Lasciatemi fare un applauso all’ottima “Senza fiato” che, parafrasando il suo titolo, mi ha lasciato proprio in quello stato, brano completamente libero dalla prigione metrica e stilistica di un testo, che mi ha, per l’appunto, particolarmente rapito anche se, devo ammettere, ho sempre avuto una accentuata predilizione per le musiche interamente strumentali; non è un caso, del resto, se ho suonato in una band siffatta per quasi dieci anni.

VOTO: 8
EMMANUEL MENCHETTI.


venerdì 27 luglio 2012

RECENSIONE CONCERTO P.F.M. CON L'ORCHESTRA CLASSICA AL PARCO ISOLA DI BRESCIA (RN) PER L'EVENTO "REMEMBER WOODSTOCK" DEL 27/07/2012


Quando mi trovo al cospetto della grandezza di tali musicisti, di questi immensi artisti e artigiani della musica, nati come ragazzi alla fine degli anni '60 con il proverbiale amore per i Beatles e i Rolling Stones (c'era forse un cantautore italiano che ne condivideva la passione, ma sbandierandola volgarmente ai quattro venti con una canzoncina pronta pronta per essere gettata in classifica nelle fauci del mercato globale??!!! ..), il rock'n'roll nel cuore ma la perizia tecnica e la geniale maestria nelle mani, ma soprattutto la storia della musica scritta nelle pagine del nostro passato, provo una sorta di imbarazzo reverenziale, di quell'ossequio quasi di sapore idolatra come di chi prega e chiede un qualcosa di impossibile agli Dei, pur sapendo di poterlo miracolosamente ottenere, con la forza del suo rispetto e la devozione di chi ha cieca fede. Astrusa la pretesa di dattilografare una recensione quando si assiste allo spettacolo di queste divinità della musica, accompagnate da una magnifica orchestra di una ventina di diligenti esecutori di componimenti classici, specie se lo scenario di questo splendido parco, circondato da pioppi, sotto la vista di una mezza luna che illumina un cielo stellato, viene invaso dalle magiche musiche di Mozart, Beethoven e Verdi, arrangiate per la Premiata Forneria Marconi a dai leggendari cavalli di battaglia di quest'ultima (inutile nominarli ma basti pensare a "Impressioni di settembre" e "E' festa" o per gli anglofoni "Celebration"!!), riarrangiati a loro volta per orchestra classica, quasi a restituirne reciprocamente la lusinga. Chimerica l'illusione di ambire a esprimere con parole l'emozione che questi vecchietti che rispondono al nome di Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Patrick Djivas e Lucio Fabbri, hanno saputo trasmettere, questi veterani della musica che hanno così tanto da insegnare ancora alle generazioni presenti e future. Imbarazzante questo concerto assolutamente perfetto, senza nessuna sbavatura, dove tutto è parossisticamente preciso, dall'assolo di chitarra al giro cosmico di basso con un leggero overdrive, alla carezza della bacchetta sul piatto nell'anfratto di una pausa, quasi la musica stessa fosse un corpo umano che si sfiorasse con strumenti chirurgici, per guarirlo dal cancro della corruzione, della becera commerciabilità e così salvarlo dalle metastasi di una riduzione ai suoi minimi termini. Dopo un'esibizione di così divina maestosità, non resta che tornarsene a casa con uno sguardo alle stelle del cielo e il sogno nel cuore di diventare un giorno un grande musicista.

EMMANUEL MENCHETTI
VOTO: 10 E LODE

sabato 21 luglio 2012

RECENSIONE CONCERTO DURAN DURAN ARENA REGINA, CATTOLICA, 20/07/2012





Le note delle sinfonie di Vivaldi si liberano come sottofondo nell'aria, ad un volume pacato, poco più alto della soglia comune di percezione mentre gli spettatori, stimati grossolanamente tra le 2.000 e 2.500 unità, si affrettano a prendere i loro posti (numerati), la fantastica compagnia a mio fianco di un grande amico di vecchi tempi nonché musicista che dirigeva la prima band in cui suonai quando ero ancora alle prime armi sulla batteria, l'aria tiepida che si riversa nei nostri volti sotto le stelle di un cielo terso di mezza estate sulla sempre attraente e colorata riviera romagnola, che pare sempre in festa tra le sue luci, tutto sembra il preludio di una grande serata perchè la magia si licenzia da ogni angolo e anfratto di questa arena di regale fascino. Poi si spengono le luci e in qualche istante avviene la vera e propria insurrezione popolare di coloro che, come noi, essendo rimasti in piedi per aver acquistato il biglietto più economico si riversano violentemente e illegalmente a bordo palco tra le lamentele del pubblico che invece ha pagato 65 sonanti euro per vederselo seduto da vicino ma che, per l'appunto, deve alzarsi in piedi perchè improvvisamente ed impunemente impedito alla visuale del palco. Le rivoluzioni popolari spesso non si vincono e ancor più spesso neppure si combattono quando il popolo rivoltoso è superiore in numero ai borghesi invasi nella loro sfera privata e rimasta (sino a poco prima) inviolabile ed ecco allora che con un biglietto di soli 39 euro, mi ritrovo a coronare il sogno di una vita, ossia quello di trovarmi a soli 5 metri da Simon Le Bon e soci. Finalmente dopo una lunga attesa il leggendario e neoromantico gruppo di Birmingham entra in scena ed è subito chiaro che le vere stelle non sono sopra le nostre teste... ma proprio a quel ciuffo di metri da noi. E' allora un susseguirsi per 2 ore di capolavori con i quali sono cresciuto da bambino, riversati su un pubblico commosso, provocato dall'incipiente nostalgia di un passato sempre più glorioso del presente perchè filtrato da una memoria traditrice e spesso menzognera. Il trittico stellare (e sempre presente nel susseguirsi delle varie stagioni della loro trentennale storia) di Simon Le Bon, John Taylor, Nick Rhodes: musicisti raffinati e splendidi uomini dal fascino immortale per i quali sembra il tempo non sia mai passato e che rendono quei gloriosi anni '80 stranamente così vicini in questi cattivi tempi, dove la crisi economica che attanaglia il mondo, sembra, solo per questa sera, non esistere, essere come offuscata e resa innocua dall'antidoto della musica. Difficile descrivere la loro esibizione come non facile è dipingere la perfezione con il pennello dell'ammirazione più solenne, che rende ogni mia parola limitativa nel definire e relegare la grandezza di un così tale show ad una mera trascrizione di elementi dai contorni arcani, che possono solo essere vissuti per poterli comprendere e qui sta il limite del giornalismo musicale. Semplicemente perfetto, magniloquente, splendido questo concerto. Le sbavature sono quasi inesistenti in una performance liberata da dei veri professionisti e perfezionisti della musica pop che ci confermano ancora che ci troviamo al cospetto di artsti raffinati, attenti alla qualità della musica non meno che alla loro immagine, sempre attraente. Unico piccolo neo è l'attitudine un po' timida di Roger Taylor, quel suo batterismo mai azzardato e quel senso di paura che empaticamente mi ha trasmesso, quella fobia di sbagliare in ritmi così semplici e necessariamente metronomici dove l'inesattezza diviene palese anche di fronte all'orecchio più distratto, sicuramente il più diffuso tra quello di un pubblico come questo, avverso alle masturbazioni stilistiche e tecniche dei musicisti che divengono anche ascoltatori e che sono stati solo ascoltatori. Ma la musica è EMOZIONE, non tecnica e tanto meno dipende dal genere suonato. E stasera di emozione ce n'è stata in modo esagerato per un evento epocale che non dimenticherò mai.


EMMANUEL MENCHETTI
VOTO: 10.

domenica 15 luglio 2012

MIA RECENSIONE MUSICALE: CONCERTO AL VELVET (RIMINI) DEL 14/07/2012 DEI THE CULT


Piccola premessa da parte di uno scrivano gay in preda a diluvi e tempestosi fumi ormonali: il poter assistere ad un concerto dei THE CULT è semplicemente il coronamento del sogno personale di una vita, la prima loro cassetta fu acquistata dal sottoscritto nel lontano 1987 (avevo...ebbene si ... 11 anni!!) e fu proprio quello splendido "Electric", loro terzo album di seducente hard rock post-punk tipicamente anglosassone con cui in  quegli anni, la band soleva dispensare e centellinare capolavori su capolavori. Ma veniamo al dunque. La serata comincia con l'esibizione dei GUN, gruppo scozzese ma italianizzato nell'attitudine di stare sul palco che, tanto per tradurre, significa decontestualizzati all'ambire alla figura semi-divina di rockstar. La band in realtà si lascia ascoltare piacevolmente anche se a me sembra una rivisitazione degli U2 con il distorsore (quello vero!!), da ascoltare durante un aperitivo trendy di amici finti rockers o, ancor peggio, ex rockers pentiti, mentre si scrutano le previsioni del tempo con l'iphone, pensando filosoficamente se andare a ballare al Pascià o al Cocorico (dato che siamo in zona!!). VOTO: 6. Ma andiamo oltre. Finalmente entra sul palco, dopo estenuanti attese nel caldo apocalittico del Velvet, la leggendaria band inglese. Allora, non è per fare la solita troietta pettegola che ha mangiato acido e con le mestruazioni perenni che inondano impunemente il pannolino ma, per onestà intellettuale, una cosa va chiarita subito. La festa, i lustrini, le stelle sempre brillanti e forse... anche le grandi scopate ... per il signor Astbury, sono finite!! e anche da un bel pezzo, volente o nolente. Tutta l'esibizione è stata un abominio innominabile per quanto riguarda la performance vocale, un cantante-zombie che pareva uscito da un film dell'accoppiata Romero-Fulci, divenuto parodia di sè stesso, che liberava la propria flebile e incerta voce in metriche totalmente sbagliate e saltellanti come più gli faceva comodo, tonalità opportunamente ribassate, testi violentati da una memoria ormai prossima al suo annichilimento tipico di un Alzheimer incipiente, canzoni cantate "a rate" quasi da non renderle riconoscibili ... insomma ... un vero disastro. L'unico consiglio che posso dare al signor Astbury è di lasciar perdere, recarsi in ospizio e organizzare tornei con gli altri pensionati di briscola, tre sette o merda, avendo l'accortezza di non lanciare le carte troppo violentemente onde evitare fastidiose tendiniti al gomito; oppure c'è sempre la nobile arte di estinguere la gramigna dalle campagne inglesi, c'è bisogno ancora di braccia nei campi, pur nel paese che per primo s'è ribellato alla pastorizia e all'agricoltura con la rivoluzione industriale. Il vero Dio della serata è invece Billy Duffy, con il suo tocco sempre preciso, la sua mano pesante, i suoi riff azzeccatissimi e ....(piccola digressione bisessuale sul tema...) diciamocelo, quanto è bono?!! ...tanta roba!! Per il resto la scaletta è stata più che ottima con un diluvio di capolavori e grandi classici della loro epoca ottantiana tipicamente post-punk e dark wave anglosassone, centellinati uno dopo l'altro, senza ritegno. Il resto della band è stata grandiosa a parte il secondo chitarrista ritmico, decisamente antiestetico, che mi ha fatto sorgere la domanda di cosa centrasse quell'energumeno impersonale, ombra di sè stesso, con la storia del rock, quello vero, scritta anche dai The Cult. John Tempesta invece ... beh ... ha bisogno di presentazioni? per lui suonare nei Cult è una passeggiata, insomma un nome, una garanzia!!!! I suoni del locale, data la saggia abbondanza nella sua struttura dei due materiali maggiormente nemici della rifrazione del suono ossia il vetro e il plexiglass, come al solito erano orrendi, seppur ben bilanciati tra di loro da un fonico che, sicuramente, date le avverse condizioni ambientali rivelate poc'anzi, ha fatto i suoi miracoli, pur senza essere menzionato in qualche improbabile opera di narrativa spacciata per storia di nome bibbia.

EMMANUEL MENCHETTI
VOTO: 7,5


per visualizzare video concerto, cliccare qui http://youtu.be/xTUAoU-aAs4

venerdì 13 luglio 2012

MIA RECENSIONE LETTERARIA: "LA POLVERE BIANCA" ARTHUR MACHEN


Una polvere non proprio ortodossa nella moderna scienza medica, ordinata distrattamente ad un grossista  da parte di un farmacista poco convenzionale, una sostanza che, con più accurate analisi, si rivelerà essere il Vinum Sabbati ossia una polvere che serviva di base per la preparazione del vino offerto ai neofiti durante la cerimonia sacrilega, iconoclasta del Sabba. Una fialetta contenente scaglie capaci di trasformare un uomo spossato dai frequenti studi in legge, in un mostro abominevole di putredine innominabile, scura come pece che bolle al fuoco in un orrore senza più forme nè limiti, privato della soglia di comprensibilità che rende anche il peggior abominio tollerabile alla ragionevolezza umana, onde evitare di calarla nell'abisso della follia più delirante, dove l'espressione umana non ha più vesti e l'orrore diventa un fluido onnipresente che corrode gli spazi così come lo spirito della vita era per Bacone un liquido che scorreva negli interstizi organici del corpo, confluendo e garantendo la vita anche dopo svariati attimi dopo la morte corporale. Questo è Arthur Machen: il realismo che si tramuta in fantascienza, l'ordinarietà che si travolge in orrore indicibile nel passaggio di poche pagine, un ciuffo di attimi. Così com'è l'orrore della nostra stessa vita. Il tutto descritto con la saggezza dell'osservatore intelligente che sa fondere le scienze e correlarle, affrontarle e ribaltarne gli assiomi con la perseveranza e l'azzardo degli uomini grandi, ponendo sempre questioni e non lasciando mai il lettore tranquillo di potersi annoiare con qualcosa di prevedibile.

EMMANUEL MENCHETTI
VOTO: 9.

mercoledì 11 luglio 2012

PENSIERO MACABRO ...

TANTO AMO L'ARTE, CHE VORREI ESSERE TALMENTE RICCO E POSSIDENTE DA CORROMPERE TUTTO E TUTTI PER POTER DISPORRE DI UN ENORME MAUSOLEO IN CASA IN CUI TENERE I CADAVERI IN OSSARI O, PER LE MORTI PIU' RECENTI, BARE OPPORTUNAMENTE TEMPORIZZATE PER NON INDURLI IN PUTREFAZIONE, DEI MIEI REGISTI, SCRITTORI, MUSICISTI, PITTORI PREFERITI E VIVERE STRETTAMENTE A CONTATTO CON LORO. IL MIO AMORE PER L'ARTE HA UN LINGUAGGIO CODIFICATO, SUPERIORE E CHE FA SFOGGIO DELLA CONOSCENZA SERVILE CHE SOLO L'UOMO SAGGIAMENTE CURIOSO PUO' NUTRIRE GRADUALMENTE, E' UN AMORE CHE SI CONQUISTA CON LA CONOSCENZA, INFINITAMENTE PIU' VOLGARE E IMMEDIATO, ISTINTIVO E BESTIALE E' IL MIO AMORE ROMANTICO E CARNALE PER LE DONNE...ANCORA VIVE.

martedì 10 luglio 2012

MIA RECENSIONE LETTERARIA: "I SALICI" ALGERNON BLACKWOOD


La capacità di questo scrittore del Kent, di poterti ammaliare, incantare e di sottrarre totalmente l'attenzione del lettore alle altrimenti volgari distrazioni del mondo materiale e tangibile, risucchiando le lusinghe della completa concentrazione mentale nel suo mondo fantastico, onirico, affascinante, divinamente letterario è qualcosa di paradossalmente più magico della incomprensibile estraneità stessa degli avvenimenti ivi narrati alla natura comprensibile. Ho sempre sostenuto che la letteratura denuda, più di ogni altra forma artistica, il pensiero e la personalità del proprio autore grazie all'efficacia chiarificatrice e limpida che può essere conferita alla sola parola, un mezzo povero perchè conosciuto dal popolo, lontano dai linguaggi tecnici codificati di nicchia della musica o delle arti figurative che sono dettate da artisti per artisti ed è per questo semplice motivo che io amo quest'uomo di un amore che vive oltre la sua stessa opera, sola esistente e attraverso la quale ho potuto conoscere l'esistenza di questo immenso artista e che onora l'arte quale merito di divenire immortale per le generazioni successive. La letteratura come arte magica che supera la morte nella memoria dei lettori, dei fruitori stessi di questa immensa attività della mente umana intelligibile, superiore alle altre menti umane. Le sue descrizioni, la costante ricerca del soprannaturale, dell'effetto di cui non si conoscono le cause materiali, dell'intelligibile, del non compreso e di tutto ciò che sfugge alla spiegazione scientifica in un nudo artifizio di pensiero anche dove nulla materialmente avviene, rende ragione del fatto perchè certe storie, le più affascinanti, possono essere trattate sapientemente solo dalla letteratura, quando un grandissimo scrittore la sa scrivere, la sa trattare, la sa rendere attrattiva per la curiosità umana, quel sano desiderio di scoperta che non può che portare l'uomo intellettuale alla conoscenza. 

EMMANUEL MENCHETTI
VOTO: 10

sabato 7 luglio 2012

MIA RECENSIONE LETTERARIA: "NAUFRAGIO NELL'IGNOTO" WILLIAM HOPE HODGSON


Lo scrittore inglese William Hope Hodgson (1877-1918) è considerato uno dei massimi ispiratori del grande Dio della letteratura noir Howard Phillips Lovecraft (si ....avete capito bene, proprio lui). Questo piccolo preambolo dovrebbe già bastare per farci pensare di essere di fronte ad un'opera d'arte senza precedenti nella storia romanzesca di questo affascinante genere letterario. Andiamo però con ordine. Innanzitutto devo premettere che non nutro un amore viscerale per la forma del romanzo alla quale prediligo grandemente quella del racconto breve per due fondamentali ordini di motivi: il primo è che la qualità e la cura stilistica di un componimento è inversamente proporzionale con la sua durata tanto è vero che l'apogeo della forma stilistica risiede nella spesso introversa e (per antonomasia) ermetica poesia mentre al perdurare dello scritto aumentano anche i rischi di tempi morti e scene riempitive che servono solo da aggancio alle azioni principali; il secondo motivo è che odio, ripeto, odio, dover interrompere la lettura di un'opera per la sopravvenuta stanchezza perchè nella lettura a rate si perdono dettagli importanti che sono quel quid che poi rende magica   e attraente la letteratura agli occhi della mia mente assetata di cultura ed emozioni estetiche. Detto questo è chiaro che chi si avventura nel mondo del romanzo... deve saperlo fare bene accentrando l'attenzione del lettore dalla prima all'ultima pagina, altrimenti si scrive solo un soliloquio fine a sè stesso, pesante e inutile. Ecco che il signor Hodgson non rientra proprio in questa fascia dei romanzieri accorti. Mi spiego meglio. Se questo signore si avventura nello scrivere un romanzo di avventura e scusate il gioco di parole, non può farlo con l'ingenuità più deplorevole e con la ridicola e puerile ambizione di scrivere solo un malloppo di avvenimenti cronicistici senza neppure sapersi soffermare sulla analisi delle infinite sfacettature psicologiche dei personaggi, sulla descrizione delle scene, dei paesaggi, degli attori. Quando si narra l'azione pura senza descriverne gli elementi che possono essere saggiamente utilizzati come descrittivi, appunto, non si fa altro che allontanare il fruente verso il teatro o il cinema dove l'immagine ha una resa, un effetto infinitamente maggiore di quello che può avere la sua fantasia auto-stimolata oltre che non è professionale affidarsi alla immaginazione del lettore per trasportarlo in modo onanista verso i proprio lidi onirici, venendo meno all'obbligo descrittivo. La battaglia col teatro e col cinema non è però sempre impari: c'è una ricchezza che la letteratura può forgiare e che non necessita delle immagini del cinema ed è proprio l'analisi psico-sociologica del mondo interiore degli attori ed è su questo che la letteratura d'elite, quella che conta, quella di qualità, deve costruire la propria forza  e convincere colui che ne usufruisce, a scegliere di leggere un libro piuttosto che vederne il film da quello tratto. Questa è la virtù della letteratura. Se ciò non è nelle corde dello scrittore, come nel caso che abbiamo innanzi, ci troviamo di fronte ad un'accozzaglia di avvenimenti inutile e impersonale, degna del più banale romanzetto da spiaggia, scritto dalla più becera prostituta che si improvvisa scrittrice. Forse Mr. Lovecraft dovrebbe avere più stima di sè perchè ciò non rende giustizia alla magniloquenza del suo operato.

EMMANUEL MENCHETTI
VOTO: 5