domenica 21 ottobre 2018

Che cos'è la morale? chi detiene il giudizio oggettivo di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Ciò che è giusto corrisponde ad una astrazione di equità o è il perseguimento del proprio beneficio? Ciò che è morale lo si decide in base ad un senso comune condiviso dalla maggioranza degli esseri pensanti come avviene nelle dinamiche politologiche, adeguandosi quindi passivamente a regole scritte intese come assiomi incorruttibili o lo si incorpora come visione personale raffrontata solo al proprio senso di dignitosa eccellenza? è la moralità mera servile dedizione alla regola sociale nella forma o riflesso sostanziale dell'unicità della propria integrità intellettuale? E la regola sociale di comune condivisione cui attenersi, è da accettare come un fatto solo territoriale e culturale o può essere inteso come universale e appartenente all'intero genere umano in quanto pensante? ed è morale rispettare il comune pensiero, forgiato nella legge dello Stato, solo nella pratica per puro timore della condanna o è morale accorgersi a posteriori di rifletterne internamente ogni  suo risvolto, quasi fosse la legge dello Stato medesima, la perfetta proiezione di ogni singola vertebra del proprio raziocinio? Io la risposta a tutte queste domande ce l'ho, ma il porre dei quesiti anziché suggerire già la risposta agevola la personale riflessione che, in quanto tale, consente di giungere alla conclusione in modo maggiormente convinto anche se già in ciò che ho asserito poc'anzi riguardo al mio modo di stimolare la riflessione, è contenuto velatamente il mio stesso suggerimento.

Emmanuel Menchetti.

giovedì 18 ottobre 2018

L'essere umano è, per sua natura, DESTINATO ALL'ESTINZIONE in conseguenza del fatto di non essere adattabile al mutamento, perché è spinto alla reazione solo da 2 fattori: percezione del pericolo in uno spazio temporale breve e la stessa percezione limitatamente al proprio territorio che non comporta quindi alleanza solidale. Questo fa sì che l'effetto serra ed il riscaldamento del pianeta, inteso come REMOTO e GLOBALE, non sia percepito come pericolo imminente da affrontare. La necessità di un demiurgo a cui poi addebitare il mistero del "destino" crea poi l'illusione e l'inganno della religione ma è solo un'irresponsabilità umana.


Emmanuel Menchetti.

mercoledì 19 settembre 2018

LE ETNIE DELLA MUSICA

Il mondo della musica è fatto di diverse etnie. Ci sono gli operai della musica, ossia scolaretti preparati ad eseguire la lezioncina, hanno cultura generalista, sono adattabili tecnicamente a diverse situazioni ma sono privi dell’intelligenza di conoscere la causa filosofica e culturale che li porta ad accettare qualsiasi ingaggio perché non hanno cognizione di sé, sono quindi incapaci di contestualizzare il loro impegno e dare un senso alla loro attività che non sia quello di trarne solo denaro in modo parassitario, non hanno personalità per cui non sanno imporla sugli altri e spesso sono privi di talento naturale, sostengono gli artisti veri o presunti di cui vivono nell'ombra, ma sono sostituibili con altri operai perché informi e incolori per cui nessuno si ricorderà mai di loro. Ci sono i veri professionisti, ossia quelli preparati che sanno il fatto loro, conoscono come va il mondo e sanno come affrontarlo, ma a differenza dei primi sono degli autori e avendo pure del talento naturale, idee e personalità, nel migliore dei casi riescono a penetrare il mercato riuscendo pure a vivere della loro stessa musica ma, a differenza dei primi, non sottostando alle idee altrui, ma esponendo le proprie pur nel rispetto di generi vendibili e senza dimenticare di strizzare l’occhio alle mode e ai piaceri del pubblico, ma anzi aggiornandosi di continuo alla dinamica delle tendenze fino al caso limite del trasformismo. C’è poi la libera espressione dell’arte, diletto puro e incontaminato di anime estrose, comunicato in un linguaggio musicale non vendibile perché evoluto e inaccessibile ai più, che se ne fregano del mercato e di ogni regola che non sia la perfetta espressione del proprio talento; sono spesso disordinati, eccentrici, ingenui, romantici e talvolta, anche se raramente, anche più tecnicamente preparati dei primi due ma dotati di un estro e di un carattere incompatibile con gli schemi prefissati di un genere; solitamente sono molto intelligenti e nel loro disordine artistico e liberamente influenzato, seguono esclusivamente l’ordine monarchico della propria fantasia, attuano consapevolmente la scelta di non scegliere perché sanno che l’unica regola dell’arte è creare l’emozione e coerenti solo a se stessi, non possono che seguire la propria.


Emmanuel Menchetti

giovedì 29 marzo 2018

Con l’avanzare dell’età si impara ad accontentarsi che non significa solo rassegnarsi a rinunciare alle ambizioni in conseguenza dell’assottigliarsi dell’orizzonte temporale rimasto, ma riuscire a valorizzare il bello delle cose semplici, depurandole di aggressive ed ingenue velleità nonché di grossolane presunzioni di illusione tipicamente giovanili, sapendole contestualizzare meglio nell’equilibrio delle priorità, anche alla luce di una visione maggiormente panoramica del mondo, proprio dovuta all’esperienza, che ci libera dai fuorvianti sogni giovanili protesi al futuro immaginato, concentrandoci invece sull’oggettività del vissuto. Del resto, se la vecchiaia non ci insegna un po’ di saggezza, ci avvicina solo alla morte.

Emmanuel Menchetti.

giovedì 22 marzo 2018

Emmanuel Menchetti: "Apologia del disagio e apostasia dell'illusione"

La casualità del seppur auspicabile raggiungimento della felicità nel corso di una vita che non ci è stata però chiesta di vivere, rende lo stesso benessere un qualcosa di incidentale ed accessorio a una condizione esistenziale che pervade e domina l’ombra di ogni nostra scelta. Il disagio di vivere, per contro, è una condizione cui si associa un attributo maggiormente ontologico dell’esistenza stessa. Da questa ottica, dato quindi il vizio iniziale di una nascita forzata, la felicità non può esistere o se si raggiunge è una condizione sussidiaria quanto velleitaria e fugace, mentre l’infelicità è essa stessa parte integrante e decifrante dell’essere vivo.

Emmanuel Menchetti: "Assolutismo cosmico della relatività"

Non esiste un solo mondo ma tanti mondi quante sono le menti pensanti, ne consegue che la vita sussiste solo nella forma pensante auto-cosciente e non nel peso gravitazionale della materia e che la rilevanza dell'esistenza medesima si subordina alla consapevolezza. Non esiste quindi l'assolutismo del giudizio e il tutto diviene opinabile e assoggettato alla scelta individuale.

venerdì 16 marzo 2018

Perché cercare limiti spazio temporali dell’universo se concepiamo il limite solo come frammento di discontinuità tra essenze altrimenti (per l’appunto) continue? Sarebbe come concepire un Dio che prima di creare un universo con la fisicamente inqualificabile magia di coniare materia dal nulla, abbia necessariamente auto-creato se stesso. Se andiamo oltre il concetto fisico e matematico di limite e cominciamo invece a incorporare il concetto intellettivo di infinito, depurato quindi di un necessario e nondimeno quantificabile inizio e un termine, declassiamo la ricerca necessaria del confine, nonché di un inizio, ad argomentazione futile e priva di mordente conoscitivo.

Emmanuel Menchetti.

Se non fosse per il fatto che la nascita non è una nostra scelta, nell’eterna competizione tra la parte razionale ed emotiva delle nostre valutazioni, coerentemente con la previa decisione di venire al mondo, il solo raziocinio dovrebbe misurarsi con le nostre preferenze nel corso della vita; il senso invece di ambiguità derivante da un’esistenza vissuta essa stessa come contratta tra la non scelta di nascere e il dovere di morire, tende a privilegiare uno stile di vita irrazionale ed edonista. Quest’ultimo disgrega gli equilibri del benessere derivanti dalla necessarietà di vivere come nutrirsi in modo sano, procreare impegnandosi a migliorare le condizioni ambientali per tutelare la propria progenie, ottimizzare il potere d’acquisto del proprio reddito per migliorare le condizioni di vita per se e per la propria famiglia, progettandosi un futuro che non sia peggiore del presente. L’edonista non programma, non pensa al futuro e non pensa neanche alla vita. Riflette invece spesso sulla morte, vive solo il presente ed è nostalgico del passato perché conduce all’esame filosofico sul senso o meno dell’esistenza, i soli spazi temporali che conosce, ignorando quindi il futuro sognato invece dagli impavidi ottimisti.





Emmanuel Menchetti.

sabato 27 gennaio 2018

INTERVISTA ai DEATHLESS LEGACY, in concerto stasera 27/01/18 al Wave di Misano Adriatico









1) Nel marzo scorso ho assistito di persona ad un vostro concerto e devo dire che mi sono ritrovato coinvolto in uno spettacolo teatrale esoterico davvero entusiasmante per un cinefilo amante dell'horror come me, immerso da un'atmosfera magica, in cui ogni dettaglio scenografico è stato curato con una dovizia di particolari assolutamente professionale, ragion per cui ritengo che i vostri non siano solo concerti di (ottima) musica, ma ci sia qualcosa di molto di più e allora la domanda è : quanto la componente visiva e spettacolare è importante per voi rispetto a quella prettamente musicale?

(Andrea Falaschi, drummer e addetto alle public relations della band) - 50% e 50% questo è il peso che gli diamo, dal punto di vista della preparazione dello spettacolo è così che cerchiamo di suddividere l'impegno tra costumi, performance e scenografie. c'è da menzionare il fatto che i nostri spetaccoli per cause di forza maggiore sono comunque a low budget, ed è l'ingegno e la capacità di costruirsi le cose da soli a premiarci. Dateci il 10% dei soldi dei rammstein per uno show e vi montiamo su una roba apocalittica

2) Su Encyclopaedia Metallum c'è scritto curiosamente che provenite sia da Pisa, che da Livorno.... come vivete tra di voi questa non forse facile situazione??!!!

(A. F. ) - Bella domanda il fulcro della divergenza stra Alessio (Puro Pisano d.o.c.) e Valentina (Livornese nata dal mare). Lo scontro dialettale si fa intenso soprattutto durante quel periodo di asecerbazione dei sentimenti chiamato DERBY. uahauhah! Apparte gli scherzi, quello tra pisa e livorno è un odio e amore che fa parte della loro identità, cosa sarebbero i livornesi se non potessero dire e scrivere PISA MERDA?

3) Non vorrei spaventarvi ma temo che l'aura maligna dei Death SS (io ho la sfrontatezza di nominarli ma qui a Pesaro li chiamiamo "gli innominabili" per non subire lutti) di cui eravate agli inizi un'importante cover band, stia dispiegando il suo mantello nero anche su di voi: prima mentre guardavo un vostro video sul tubo, mi è partito il computer nel senso che mi si è bloccato con schermata improvvisamente nera e non mi si muoveva nemmeno il cursore (non è nuovissimo, ha un paio d'anni ma non si è mai bloccato in questo modo, tranquilli non vi chiederò i danni ahah, ora sono riuscito a riavviarlo ma da qui mi è nata l'idea dell'intervista!!); avete allora qualche aneddoto a proposito da raccontarci? ......

(A. F. ) - Ti spiego cosa è quell'aurea maligna di cui tanto si parla, si tratta di un convoglio di spiriti ed energie oscure, che tanto ci danno forza, e tanto ci premiano e ci danno occasioni. Ma chi si affaccia a queste energie con superstizione o paura, viene spesso danneggiato. Ma chi nomina l'innominabile, col suo vero nome, con la sfrontatezza di una stella danzante, non potrà essere altro che premiato dalle forze oscure!
è come il battestimo delle fiamme, chi ha paura si brucia!


grazie e ci vediamo stasera!!!


Intervista  a cura di Emmanuel Menchetti

domenica 21 gennaio 2018

AMNESIA (racconto tratto dalla raccolta "La Mantide Agnostica")

Mi ritrovai per il sentiero che percorrevo spesso nelle mie passeggiate solitarie in campagna, quando ebbi una rinnovata percezione del tutto. Nonostante la familiarità ormai boriosa dei luoghi fin troppo spesso, per comodità di vicinanza, percorsi, sentii che qualcosa non era più banalmente già visto. Quel luogo desolato in cui immergevo i miei tragitti nel fondo dell'anima, quei percorsi a me così conosciuti tali da potersi diramare nel prolungamento delle mie stesse vene, celavano, ad un tratto pacatamente inaspettato, il contradditorio senso del dubbio. Non riuscivo bene a focalizzare sin da subito la causa di quella strana sensazione di momentanea amnesia, ma udii il silenzio dell'ignoto attorno a me, un tono afono che gettò fin da subito la mia mente nel disordine di un principio di ischemia della conoscenza. Ebbi come le vertigini pur avendo i piedi ben saldati a terra e nonostante il terreno non si lasciasse corrompere in dislivelli di percepibile intensità. Affranto e indispettito da quella visione che pur accompagnava la freschezza di una novella, nel grigiore, altrimenti informe, della piattezza quotidiana, volli riprendere il controllo della ragione ed interrogarmi sul perché dell'interruzione di quelle abitudinali certezze. La mia mente allora riprese il timone della lucidità, scacciando lo stordimento dell'amnesia e posò il fulcro delle sue questioni su un punto nello spazio. Cercai il riferimento più usuale che potessi immaginare ossia la mia stessa casa, dalla quale provenivo, per cui mi voltai a riguardare indietro il tragitto fin lì percorso. Una cosa mi parve strana. Da quel punto della lieve salita, in cui affiancavo un rudere abbandonato che ero solito vedere dalla finestra della mia camera da letto, avrei dovuto, per logica transitiva, poter rimirare la finestra della camera medesima, o quanto meno, avrei dovuto scorgere la facciata stessa della mia abitazione; e invece non vedevo nulla, o più precisamente, distinguevo alla vista, solo  un enorme albero celare il punto in cui ero certo di ricordare si trovasse la mia stessa casa. Fui allora tormentato da un'assurdità che aveva il sapore dell'atroce: se potevo vedere dalla finestra della mia stanza da notte quel rudere che ora era al mio fianco a poche centinaia di metri dalla mia abitazione, come si spiegava il fatto che, voltandomi indietro proprio dal punto che affiancava il rudere medesimo, non potessi ridistinguere rispettivamente la mia casa?! Avanzai per qualche metro superando la baracca a me tanto familiare nelle mie solitarie visioni domestiche e mi rivoltai sperando di far riapparire la mia casa dietro alla sagoma di quel grande albero, che pure ricordavo infestasse solo parte della sua facciata. Niente. Vedevo solo l'albero. Avanzai ancora, salendo il colle di qualche decina di metri. Mi rivoltai inebetito. Nulla. Avvistavo ancora solo l'albero. Ebbi il dubbio di aver sbagliato pianta e mi guardai intorno ma poi la monomania della mia percezione riposò la sua attenzione su quello che, a differenza degli altri alberi che si ergevano dai giardini delle casette adiacenti, risultava essere, per come appunto lo ricordavo, l'unico abete. Decisi di non pensare più a quella stranezza, promettendomi però, nel silenzio delle mie argomentazioni, di ricontrollare, quando avrei raggiunto casa, di riuscire a mirare il rudere dietro l'abete dalla finestra della mia camera. Continuai il mio solito tragitto anche se più solito non sembrava, quando un altro dubbio atroce mi assalì. Ero certo che mi sarei dovuto trovare innanzi al ponticello in legno che attraversava il fiume per portarmi all'altra sponda e invece, seppure udivo il fruscio delle sue acque strisciare sulle frasche, vidi di fronte a me una casa bianca. Ero sconvolto da quella visione, non potevo comprendere che ci facesse in quel punto una abitazione. Non era poi possibile che l'avessero costruita in soli tre giorni da quando ero passato proprio di lì per l'ultima volta. A quanto pareva dalle auto parcheggiate di fronte, doveva essere persino già abitata. La cosa strana inoltre, dissi a me stesso, è che se pure avessi accettato il non certo piacevole fatto di essere improvvisamente impazzito, o di aver perso la mia memoria un tempo così salda, tale da permettermi di svolgere alacremente il mestiere di contabile, comunque non si spiegava il perché un architetto e un geometra, per quanto audaci o bizzarri si potessero immaginare, avessero avuto il desiderio di costruire un'abitazione proprio nel centro di un percorso, seppure sterrato, ostruendo l'unico passaggio possibile all'altra riva del fiume, quando poi era evidente che il sentiero stesso continuasse anche dopo lo stesso, dato che potevo scorgere la sua vena salire su per il colle, dietro la casa bianca. Non potei accettare tutto questo, e certo del fatto che quell'abominio di cemento fosse abitato, mi avvicinai all'ingresso e decisi di bussare alla porta. Non aprì nessuno. Ribussai allora gridando di aprire. Ad un tratto udii dei passi di tacchi provenire dall'interno. Mi accolse una signora, mi fece entrare senza chiedermi il perché della mia intrusione, la qual cosa continuò ad apparirmi strana, anche se ormai e se fosse paradossale ammetterlo, mi ero talmente abituato alle stravaganze di quel giorno che mi sarebbe apparso invece insolito riconoscere un dettaglio in ordine o situato nello stesso posto in cui la mia memoria si sarebbe aspettata di trovarlo. Non fu la signora a chiedermi di presentarmi, nonostante che fossi io l'intruso in casa sua ma fui io a chiedere chi lei fosse perché era lei l'intrusa nella mia mente. La signora mi sorrise e, senza rispondermi, mi fece entrare. La sala d'ingresso che mi trovai innanzi era grande e molto luminosa, completamente bianca e senza quadri. Pensai che odiavo le stanze così scarsamente adorne. Vi era poi una lunga scalinata, anch'essa bianca, che, declinava poi sulla sinistra e attraversava l'abitazione in un corridoio trasversale sospeso a mezz'aria sopra la mia testa. Su questo corridoio che pareva volare nel mezzo del salone che lo accoglieva, anch'esso bianco come la scalinata, come l'intonaco esterno della casa stessa, c'era una ragazza dagli splendidi capelli corvini e un viso accogliente, solare, che mi parve però velatamente familiare. La ragazza mi stava guardando, sorridendomi complicemente, mentre appoggiava i gomiti alla ringhiera, anch'essa bianca. Mi convinsi che assomigliasse a qualche persona che conoscevo ma che non riuscivo a ricordare. Io la salutai. Poi tornai a guardare la signora che mi aveva aperto la porta e che, dedussi, dall'età apparente, potesse essere la madre della ragazza sulla scalinata. Le chiesi perché non avesse chiesto il mio nome. Lei sorrise . Chiese poi il mio nome. Per quanto la cosa fosse imbarazzante, non seppi dirglielo. Per distogliere la mia mente dall'imbarazzo, le chiesi perché mai avessero fatto costruire la loro abitazione sopra l'unico ponte che attraversava quel fiume lungo una decina di miglia del suo percorso. Lei rise. Mi disse che loro avevano da sempre abitato lì e che la casa aveva un mulino per la macinazione dall'altra parte verso il colle le cui pale erano azionate dalle acque stesse, per cui cercò di convincermi che la casa stessa fosse stata costruita ancor prima della deviazione delle acque del ruscello dal loro naturale percorso. Tentai allora di sedermi su una poltrona bianca un metro dietro a me. Chiesi alla signora se mi conoscesse. Lei acconsentì col cenno del volto. La ragazza, nel frattempo, era scesa dalla scalinata. Mi accarezzò la guancia con una sfrontatezza tale che non poteva essere di una sconosciuta. Chiesi a lei il mio nome. Me lo disse. Non potevo credere di chiamarmi in un modo che non avevo mai neanche sentito e che dopo qualche minuto avevo già dimenticato. Volli allora vedere uno specchio. La ragazza me lo indicò dietro di lei. Mi avvicinai ad esso superando la sua sagoma. Mi voltai poi nuovamente verso la mia interlocutrice che aveva osato porgermi quel riflesso di falsità. Chiesi chi fosse. Mi rispose di essere la mia promessa sposa. Asserì che la signora che mi aveva aperto la porta sarebbe stata la mia futura suocera, confermandomi almeno della supposizione che fosse sua figlia. Dissi che volevo tornare indietro verso casa mia. Mi risposero che era quella la mia casa, quella maledetta abitazione dannatamente lattescente, terribilmente candida mentre io avevo da sempre amato solo il colore nero. Nero come il colore del buio che ora rappresentava il mio passato. La più giovane delle due donne, ossia la mia promessa sposa, mi accompagnò a letto, in una stanza, ovviamente bianca, che avevo già imparato ad odiare, come il resto della casa, e mi fece stendere sulle lenzuola anch'esse candidamente marmoree del letto. La signora più anziana, mi portò, qualche minuto dopo, un tè caldo, mi accarezzò la fronte mentre la più giovane, accovacciata nelle coperte al mio fianco, con le ginocchia tirate su in un modo che tradiva la sua dimestichezza, la sua confidenza e la sua totale tranquillità al mio fianco, mi disse che non avrei più dovuto allontanarmi da casa. Le dissi che la mia casa era sparita dietro l'abete. Mi rispose non vi erano abeti intorno. Un solo mulino giaceva fuori delle sue pareti, con pale in legno, ed era l'unica cosa che fosse in contrasto col pallore dell'intera abitazione, il quale copriva, come fosse un velo funebre, una sindone di folgorante follia, anche la carnagione di quel volto emaciato, dall'aria sconvolta e lo sguardo delirante, del misterioso uomo di mezza età che poco prima mi aveva mirato riflesso in quello specchio.

Emmanuel Menchetti.

sabato 13 gennaio 2018

RECENSIONE CINEMATOGRAFICA - "DANIKA" (2006)

(AVVISO SPOILER) Film sviluppato in modo decisamente attraente sulla vita mentale interiore di una donna, madre di famiglia iperprotettiva che, in seguito ad aver perso i figli in un incidente stradale in cui lei stessa era al volante, sconvolta in quel giorno proprio per aver appena scoperto il marito tradirla con la tata dei bambini nonché la psichiatra che la seguiva, entra in un tunnel di follia ed esaurimento senza più uscita. Il senso di colpa scompiglia talmente tanto il suo equilibrio mentale da condannarla ad un'esistenza fatta solo di visioni, incubi sospesi tra atroci premonizioni e flash-back. La triste conseguenza di tutto questo è che perde anche tutto quello che le rimane nella vita: il lavoro, il marito e si ritrova sola e abbandonata nel suo mondo immaginario fino a ritrovarsi a fare la barbona e ad immaginarsi la vita dei propri figli se fossero cresciuti con lei. Questo film è una gemma incredibile, veramente ben fatto, un surreale che ricorda lo stile Lynchiano ma con notevole suspense in più e tempi molto meno noiosamente dilatati, ma più concentrati sull'azione. I continui rimandi dall'inizio del film a quello che sarà il finale e nel corso del film a quello che è stato prima fino a mostrare che il finale sarà proprio lo stesso inizio, determinano una mancanza di continuità in cui i segreti si lasciano gradualmente svelare solo pacatamente e senza lasciare mai la certezza di comprensione assoluta, ma aprendo sempre una finestra di respiro sul fastidio del dubbio interpretativo. Un plauso a Ariel Vromen, questo (all'epoca del film, ossia il 2006) esordiente regista israeliano e alla bravissima Marisa Tomei, attrice veramente notevole che avrebbe meritato una carriera ben più acclamata. Il film è stato molto criticato ma da un ammasso di idioti che non ne hanno capito la storia.

Emmanuel Menchetti.

VOTO: 8,5