domenica 9 novembre 2014

Recensione musicale - MATTEO LA VOLPICELLA: "ANDROMEDA"



Quando la conoscenza approfondita delle leggi armoniche che governano il cosmo di questa magia che l'uomo ha creato, chiamandola musica, è talmente penetrata nella mente del musicista da filtrarsi come un fluido, un blob persino tra i collegamenti neuronali e tale da guidarne spasmodicamente e ossessivamente i pensieri ... quando questa affascinante scienza intacca la memoria dell'artista a tal punto da governare i suoi stessi incubi, forgiando la sua personalità e la sua univoca visione del mondo esterno (...alla stessa custodia della chitarra!), quando la familiarità con le scale anche più lontane dall'uso comune e geograficamente più distanti dalla terra e dalla cultura natìe, si conforma talmente alle mani del musicista da assimilarsi alla danza algebrica delle sue dita tra i tasti dello strumento, si entra in un pericoloso bivio. Arrivati a questo punto il musicista onnisciente deve fare una scelta importante. O pensa a sè stesso da musicista dando libero sfogo egoistico alle sapienti mani, ma limitando il proprio piacere al solo atto di suonare, fregandosene completamente dell'ascoltatore e di tutti coloro (compreso sè stesso) che saranno i fruitori finali del suo prodotto, oppure continua a pensare alla propria persona ma affidandole anche il ruolo di ascoltatore, condizione, a mio modo di vedere, situata ad un livello di maturità superiore, o meglio, ad uno stadio più raffinato dell'egoismo. Purtroppo però, quando la tecnica strumentale raggiunge livelli estremi e quasi parossistici, la scelta ricade spesso sulla prima ipotesi. A questo punto, gli studi fatti, gli anni passati a combattere contro l'anchilosi delle dita, non sempre risultano fini univocamente a loro stessi, ma la composizione ne risente irrimediabilmente nel suo complesso e la monomania della perfezione stilistica prende il sopravvento sulla visione panoramica delle cose. In questo stadio emotivo la musica diventa spesso strumentale e, in questo caso, addirittura monarchica, in quanto stiamo parlando dell'utilizzo in questo disco, seppur in modo eccelso e nelle sue varie sfacettature, della sola chitarra. Raggiunta questa vetta di eccellenza in fluidità stilistica dell'esplorazione armonica, in cui il musicista diventa raffinato ricercatore anche delle soluzioni melodiche più improbabili, a fianco di brani veramente impeccabili sia a livello ritmico che solista ma, allo stesso tempo, capaci nondimeno di trasmettere emozioni piacevoli anche all'ascoltatore (come i primi due che aprono l'album), si liberano dalle mani di questo demiurgo della sei corde, altri estratti decisamente poco convincenti. In questo confine che io colloco tra il secondo ed il terzo brano, si perde l'importante canale di comunicazione emotiva tra artista e ascoltatore, quel flusso neuronale di sogni e piaceri che unisce vicendevolmente sia l'uno che l'altro, donando delizia e soddisfazione incondizionatamente ad entrambe. Invece questa mentalità tipicamente "jazzistica" di vedere la musica, colloca chi ne fruisce ad uno stadio inferiore rispetto al creatore stesso ed è solo allora che quest'ultimo intraprende una via che lo allontana dal primo soggetto a cui lo stesso prodotto assurdamente e, per giunta, si rivolgeva (!!!), disperdendo un po' il senso del disco stesso. La bizzarrìa armonica di certe soluzioni si unisce in questo caso anche a scelte ritmiche un pochino bislacche o non troppo inquadrate, imprigionando l'ascoltatore nella fantasmagoria di un linguaggio algoritmico privo di una codificazione condivisibile. La registrazione casalinga non aiuta il disco ad emergere da questo pericoloso pantano, pur non perdendo in definizione delle singole note suonate che, come uno tzunami, arrivano tutte comunque cristalline e ben distinte all'orecchio dell'ascoltatore, anche agevolate in questo, dall'assenza di altri strumenti che andrebbero forse a sporcare lo sfogo accademico del funambolico chitarrista pesarese.  L'integralismo compositivo che lascia, a mio parere, troppo libero sfogo all'improvvisazione, perdendo l'ordine della visione globale del tutto, per fortuna molla, in non pochi momenti, la sua presa, rilasciando questo disco un poco respirare e ridonandone prezioso ossigeno e contegno stilistico, riappropriandosi quindi saggiamente di quella osmosi tra musicista ed ascoltatore prima peccaminosamente abbandonata. In sostanza quindi, questo "Andromeda" forgia nella mia comprensione immaginativa delle cose, l'idea di un parto artistico esclusivo, troppo di nicchia e che si rivolge solo a musicisti raffinati, affiancando a brani veramente ottimi altri che, personalmente, non mi hanno detto nulla o mi hanno addirittura fatto un poco storcere il naso. Le capacità non mancano, manca un po' di quell'ordine e di addestramento del proprio estro che sono però anche responsabili di una maggiore professionalità e, lasciatemi dire e siate con questo termine indulgenti, "commerciabilità" di un lavoro. Con la speranza e il monito di un miglioramento futuro in questo senso, incondizionatamente deliberiamo.

VOTO: 7

Emmanuel Gravier Menchetti.