domenica 21 gennaio 2018

AMNESIA (racconto tratto dalla raccolta "La Mantide Agnostica")

Mi ritrovai per il sentiero che percorrevo spesso nelle mie passeggiate solitarie in campagna, quando ebbi una rinnovata percezione del tutto. Nonostante la familiarità ormai boriosa dei luoghi fin troppo spesso, per comodità di vicinanza, percorsi, sentii che qualcosa non era più banalmente già visto. Quel luogo desolato in cui immergevo i miei tragitti nel fondo dell'anima, quei percorsi a me così conosciuti tali da potersi diramare nel prolungamento delle mie stesse vene, celavano, ad un tratto pacatamente inaspettato, il contradditorio senso del dubbio. Non riuscivo bene a focalizzare sin da subito la causa di quella strana sensazione di momentanea amnesia, ma udii il silenzio dell'ignoto attorno a me, un tono afono che gettò fin da subito la mia mente nel disordine di un principio di ischemia della conoscenza. Ebbi come le vertigini pur avendo i piedi ben saldati a terra e nonostante il terreno non si lasciasse corrompere in dislivelli di percepibile intensità. Affranto e indispettito da quella visione che pur accompagnava la freschezza di una novella, nel grigiore, altrimenti informe, della piattezza quotidiana, volli riprendere il controllo della ragione ed interrogarmi sul perché dell'interruzione di quelle abitudinali certezze. La mia mente allora riprese il timone della lucidità, scacciando lo stordimento dell'amnesia e posò il fulcro delle sue questioni su un punto nello spazio. Cercai il riferimento più usuale che potessi immaginare ossia la mia stessa casa, dalla quale provenivo, per cui mi voltai a riguardare indietro il tragitto fin lì percorso. Una cosa mi parve strana. Da quel punto della lieve salita, in cui affiancavo un rudere abbandonato che ero solito vedere dalla finestra della mia camera da letto, avrei dovuto, per logica transitiva, poter rimirare la finestra della camera medesima, o quanto meno, avrei dovuto scorgere la facciata stessa della mia abitazione; e invece non vedevo nulla, o più precisamente, distinguevo alla vista, solo  un enorme albero celare il punto in cui ero certo di ricordare si trovasse la mia stessa casa. Fui allora tormentato da un'assurdità che aveva il sapore dell'atroce: se potevo vedere dalla finestra della mia stanza da notte quel rudere che ora era al mio fianco a poche centinaia di metri dalla mia abitazione, come si spiegava il fatto che, voltandomi indietro proprio dal punto che affiancava il rudere medesimo, non potessi ridistinguere rispettivamente la mia casa?! Avanzai per qualche metro superando la baracca a me tanto familiare nelle mie solitarie visioni domestiche e mi rivoltai sperando di far riapparire la mia casa dietro alla sagoma di quel grande albero, che pure ricordavo infestasse solo parte della sua facciata. Niente. Vedevo solo l'albero. Avanzai ancora, salendo il colle di qualche decina di metri. Mi rivoltai inebetito. Nulla. Avvistavo ancora solo l'albero. Ebbi il dubbio di aver sbagliato pianta e mi guardai intorno ma poi la monomania della mia percezione riposò la sua attenzione su quello che, a differenza degli altri alberi che si ergevano dai giardini delle casette adiacenti, risultava essere, per come appunto lo ricordavo, l'unico abete. Decisi di non pensare più a quella stranezza, promettendomi però, nel silenzio delle mie argomentazioni, di ricontrollare, quando avrei raggiunto casa, di riuscire a mirare il rudere dietro l'abete dalla finestra della mia camera. Continuai il mio solito tragitto anche se più solito non sembrava, quando un altro dubbio atroce mi assalì. Ero certo che mi sarei dovuto trovare innanzi al ponticello in legno che attraversava il fiume per portarmi all'altra sponda e invece, seppure udivo il fruscio delle sue acque strisciare sulle frasche, vidi di fronte a me una casa bianca. Ero sconvolto da quella visione, non potevo comprendere che ci facesse in quel punto una abitazione. Non era poi possibile che l'avessero costruita in soli tre giorni da quando ero passato proprio di lì per l'ultima volta. A quanto pareva dalle auto parcheggiate di fronte, doveva essere persino già abitata. La cosa strana inoltre, dissi a me stesso, è che se pure avessi accettato il non certo piacevole fatto di essere improvvisamente impazzito, o di aver perso la mia memoria un tempo così salda, tale da permettermi di svolgere alacremente il mestiere di contabile, comunque non si spiegava il perché un architetto e un geometra, per quanto audaci o bizzarri si potessero immaginare, avessero avuto il desiderio di costruire un'abitazione proprio nel centro di un percorso, seppure sterrato, ostruendo l'unico passaggio possibile all'altra riva del fiume, quando poi era evidente che il sentiero stesso continuasse anche dopo lo stesso, dato che potevo scorgere la sua vena salire su per il colle, dietro la casa bianca. Non potei accettare tutto questo, e certo del fatto che quell'abominio di cemento fosse abitato, mi avvicinai all'ingresso e decisi di bussare alla porta. Non aprì nessuno. Ribussai allora gridando di aprire. Ad un tratto udii dei passi di tacchi provenire dall'interno. Mi accolse una signora, mi fece entrare senza chiedermi il perché della mia intrusione, la qual cosa continuò ad apparirmi strana, anche se ormai e se fosse paradossale ammetterlo, mi ero talmente abituato alle stravaganze di quel giorno che mi sarebbe apparso invece insolito riconoscere un dettaglio in ordine o situato nello stesso posto in cui la mia memoria si sarebbe aspettata di trovarlo. Non fu la signora a chiedermi di presentarmi, nonostante che fossi io l'intruso in casa sua ma fui io a chiedere chi lei fosse perché era lei l'intrusa nella mia mente. La signora mi sorrise e, senza rispondermi, mi fece entrare. La sala d'ingresso che mi trovai innanzi era grande e molto luminosa, completamente bianca e senza quadri. Pensai che odiavo le stanze così scarsamente adorne. Vi era poi una lunga scalinata, anch'essa bianca, che, declinava poi sulla sinistra e attraversava l'abitazione in un corridoio trasversale sospeso a mezz'aria sopra la mia testa. Su questo corridoio che pareva volare nel mezzo del salone che lo accoglieva, anch'esso bianco come la scalinata, come l'intonaco esterno della casa stessa, c'era una ragazza dagli splendidi capelli corvini e un viso accogliente, solare, che mi parve però velatamente familiare. La ragazza mi stava guardando, sorridendomi complicemente, mentre appoggiava i gomiti alla ringhiera, anch'essa bianca. Mi convinsi che assomigliasse a qualche persona che conoscevo ma che non riuscivo a ricordare. Io la salutai. Poi tornai a guardare la signora che mi aveva aperto la porta e che, dedussi, dall'età apparente, potesse essere la madre della ragazza sulla scalinata. Le chiesi perché non avesse chiesto il mio nome. Lei sorrise . Chiese poi il mio nome. Per quanto la cosa fosse imbarazzante, non seppi dirglielo. Per distogliere la mia mente dall'imbarazzo, le chiesi perché mai avessero fatto costruire la loro abitazione sopra l'unico ponte che attraversava quel fiume lungo una decina di miglia del suo percorso. Lei rise. Mi disse che loro avevano da sempre abitato lì e che la casa aveva un mulino per la macinazione dall'altra parte verso il colle le cui pale erano azionate dalle acque stesse, per cui cercò di convincermi che la casa stessa fosse stata costruita ancor prima della deviazione delle acque del ruscello dal loro naturale percorso. Tentai allora di sedermi su una poltrona bianca un metro dietro a me. Chiesi alla signora se mi conoscesse. Lei acconsentì col cenno del volto. La ragazza, nel frattempo, era scesa dalla scalinata. Mi accarezzò la guancia con una sfrontatezza tale che non poteva essere di una sconosciuta. Chiesi a lei il mio nome. Me lo disse. Non potevo credere di chiamarmi in un modo che non avevo mai neanche sentito e che dopo qualche minuto avevo già dimenticato. Volli allora vedere uno specchio. La ragazza me lo indicò dietro di lei. Mi avvicinai ad esso superando la sua sagoma. Mi voltai poi nuovamente verso la mia interlocutrice che aveva osato porgermi quel riflesso di falsità. Chiesi chi fosse. Mi rispose di essere la mia promessa sposa. Asserì che la signora che mi aveva aperto la porta sarebbe stata la mia futura suocera, confermandomi almeno della supposizione che fosse sua figlia. Dissi che volevo tornare indietro verso casa mia. Mi risposero che era quella la mia casa, quella maledetta abitazione dannatamente lattescente, terribilmente candida mentre io avevo da sempre amato solo il colore nero. Nero come il colore del buio che ora rappresentava il mio passato. La più giovane delle due donne, ossia la mia promessa sposa, mi accompagnò a letto, in una stanza, ovviamente bianca, che avevo già imparato ad odiare, come il resto della casa, e mi fece stendere sulle lenzuola anch'esse candidamente marmoree del letto. La signora più anziana, mi portò, qualche minuto dopo, un tè caldo, mi accarezzò la fronte mentre la più giovane, accovacciata nelle coperte al mio fianco, con le ginocchia tirate su in un modo che tradiva la sua dimestichezza, la sua confidenza e la sua totale tranquillità al mio fianco, mi disse che non avrei più dovuto allontanarmi da casa. Le dissi che la mia casa era sparita dietro l'abete. Mi rispose non vi erano abeti intorno. Un solo mulino giaceva fuori delle sue pareti, con pale in legno, ed era l'unica cosa che fosse in contrasto col pallore dell'intera abitazione, il quale copriva, come fosse un velo funebre, una sindone di folgorante follia, anche la carnagione di quel volto emaciato, dall'aria sconvolta e lo sguardo delirante, del misterioso uomo di mezza età che poco prima mi aveva mirato riflesso in quello specchio.

Emmanuel Menchetti.

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