martedì 26 agosto 2014

IL MONDO DIVERSO

Non conosco il motivo per cui ora sono qui a raccontarvi la mia esperienza. Ormai, nella comodità del mio divano di casa, tornato salvo nella mia tranquillità, lontano da mondi sconosciuti, diversi da quello della noiosa routine in cui sono tornato a vivere, non so neanche più se ciò che mi appresto a raccontarvi sia stato frutto di un sogno, di un'allucinazione ... o di una incredibile realtà, se fosse una verità fisica o solo mentale, vissuta unicamente nella mia immaginazione, probabilmente la prediletta chiave della conoscenza di un mondo altrimenti incomprensibile con il nostro intelletto. Qual'è il confine tra illusione e realtà se i miei sensi, tutti in armonico concerto, hanno comunque percepito visivamente e auditivamente una situazione che, per quanto pittoresca e sconcertante, sia stata ricostruita in un'immagine univoca e inequivocabile di sodomia degli equilibri, in un'esperienza inaccettabile di ordinato disordine? Perchè il definire un'immagine solo allucinazione dovrebbe tranquillizzarmi se quella visione mi ha comunque creato inquietudine e sconcerto al pari di una verità rigettata moralmente o traghettata dalla logica nella sfera delle assurdità? Quale la differenza tra una realtà fisica ed una mentale se comunque nella mia mente tale evento è stato vissuto come reale? Quale diversità ciò comporterebbe nella propria soggettività intellettuale? Non esiste un solo mondo ma tanti mondi quante sono le menti pensanti che lo osservano o lo immaginano per cui le peculiarità del creato sono forgiate dal solo occhio di chi le guarda e le sue qualità intrinseche vengono estrinsecate nell'interiorità di chi, osservandole, ne fa propria, ne ingerisce visivamente la sostanza. Dimenticavo, mi chiamo Robert, sono un inglese che viene dalla Cornovaglia e voglio raccontarvi della mia incredibile esperienza vissuta durante il mio soggiorno a Monaco di Baviera in un immenso parco nel corso di un pomeriggio soleggiato di ordinaria follia. L'ampio giardino alberato di cui vi parlo è il celebre Englischer Garten, situato in una zona centrale di questa splendida metropoli, a ridosso dell'Hofgarten, vicino al museo nazionale Bavarese delle armi rinascimentali e attraversato dall'oscuro fiume Isar. In quel giorno maledetto da tutti gli Dei, ero appena uscito da un ristorante nel centro, nei pressi di Marien Platz, quando, avendo ancora a disposizione diverse ore prima del mio treno per Francoforte e con la complicità di una calda giornata soleggiata, decisi di farmi una bella camminata nei parchi della città per ammazzare l'attesa. Appena entrai nel giardino, mi lasciai gradualmente digerire lungo i suoi sentieri ombreggiati dai suoi alberi così immensi, quasi fossero canali di un immenso stomaco di vegetazione sparsa a profusione, piante dagli alti fusti intrecciati e aggrovigliati tra loro come lunghi capelli nella testa di ciò che si definisce volgarmente "rasta", dai rami così rigogliosi da celare completamente alla vista un seppur qualche scorcio di città, torre, campanile o di lontano monumento cittadino nonchè di tutto ciò che fosse testimone della civiltà conosciuta e vi percepii subito qualcosa di strano, come se la luce di quel sole venisse oscurata da una scatola grigia senza uscita, un labirinto nel labirinto della vita, una dimensione parallela di caos nel caos della città fuori. Fiero e convinto del mio senso dell'orientamento, coadiuvato dalla lucida immagine che avevo mentalmente della posizione geografica in cui mi trovavo e di quella in cui vi era il mio albergo (vicino alla Hauptbahnhof ossia la stazione centrale), non mi feci impressionare troppo dalla primigenia sensazione di smarrimento e alienazione suscitatami dalle lunghe ombre di quei dinosauri di rami e foglie sopra la mia testa a celare il rischiarante cielo, e decisi di proseguire per il mio sentiero. Ad un tratto il suo tragitto cominciò però a perdere la sua linearità, iniziò ad impazzire danzando sotto ai miei piedi in curve mozzafiato prima verso destra, poi verso sinistra, poi ancora verso destra, poi lanciandosi in una vorticosa, ipnotica circonferenza attorno ad un albero le cui figure della corteccia, mi parvero, avvicinandomi gradualmente ad esso, tanti volti dalle sembianze umane, come fossero raccapriccianti maschere di un teatro. Trovai la visione molto divertente e mi convinsi di proseguire per il suo funambolico corso, convinto di poter sempre tornare indietro ripercorrendo semplicemente all'indietro il tragitto fatto, per uscire così esattamente da dove ero entrato; questa mia convinzione mi avrebbe ancora accompagnato per molto a rasserenare il mio animo se il sentiero che seguivo, oltre ad inerpicarsi in strani e incomprensibili vortici di caotico disagio che parevano divertirsi a driblare i tronchi degli alberi disseminati confusamente nel parco, non avesse cominciato improvvisamente pure a dividersi in ulteriori sentieri minori che ne echeggiavano il vorticoso tragitto, ereditandone e rimbalzandone, perpetuandone l'eclettico portamento in altrettanti cerchi di follia come fossero vene umane nella complessità organica di muscoli e tendini del corpo estraneo di un essere gigantesco del quale io ero diventato solo una molecola in esplorazione. La nuova diramazione che mi si era dipanata innanzi, mi costrinse a scegliere uno qualsiasi di questi nuovi sentieri figli, abbandonando così la strada maestra da cui provenivo. Il mio ricordo di aver percorso l'intero Hyde Park di Londra in diagonale da Marble Arch alla Royal Albert Hall, ossia da un angolo al suo opposto senza perdermi, mi tranquillizzò sulla primigenia impressione di smarrimento e mi convinse ad addentrarmi nella selva oscura scegliendo casualmente uno dei suoi percorsi. Questo parco era però decisamente molto più alberato e se non fosse per qualche timido segno di civiltà come un cestino o una panchina disseminata nell'oscurità annichilente delle ombre di quelli che ormai non mi parevano più alberi ma dinosauri di rami e foglie, sembrava di essere dentro una foresta selvaggia, distante anni luce dalla presenza umana su questo pianeta. L'esistenza di questi dinosauri verdi col volto fatto di foglie e le zampe e la coda mimetizzati in rami vorticosi, mi negava alla vista qualsiasi evoluzione di tutto ciò che stava fuori al parco e fu così che la mia bussola mentale ... cominciò ad impazzire. Una sporadica apertura sopra la testa mi riconsegnò un raggio di sole tra l'oscurità delle ombre nella notte eterna di quel giardino di angosce, ma la mia mente non ebbe neanche il tempo di rilassarsi e godere di quello scorcio di cielo azzurro, che la luce rasserenante dell'astro venne subito coperta da un enorme aereo, una umana nemesi al mio coraggio o alla mia irresponsabilità, che pareva volare a poche decine di metri sopra la mia testa tanto da gettare nuovamente la notte su tutto ciò che mi circondava e irradiando un rumore infernale come di motori impazziti che si riverberava tra le vene del gigante organismo che stavo percorrendo e tale da sentirne persino le vibrazioni nella terra sotto ai miei piedi, come si trattasse di un violento terremoto. Pensai ad un aereo che stesse per cadere vicino, un velivolo dirottato, percepii la stranezza di quella visione e mi convinsi che qualcosa non andava e solo un disastro imminente poteva costringerlo a volare ad un'altezza così proibitiva. Nulla appariva più riconoscibile, normale. Anche le cortecce degli alberi rincominciarono a mostrare volti umani. Mi avvicinai ad un tronco e vidi tante facce, come di vecchi barbuti, uno dei quali urlandomi con un volume che superava il boato dell'aereo poco sopra gli alberi, mi disse "se ti sei perso, segui l'aereo sopra la tua testa, sta per andare a schiantarsi proprio sulla stazione del treno!!" e ad un tratto i volti si misero tutti a ridere, sporgendosi ancora di più dalla corteccia dell'albero da cui parevano voler uscire e guardandosi tra di loro come in una complice combriccola di amici ubriachi. Preso dallo spavento mi misi a correre ma non sapevo dove. Corsi il più lontano possibile da quegli alberi parlanti, da quei volti che sembravano la materializzazione di tutto ciò che è più ignobile e grottesco, demenziale e corrotto in un mondo che dovrebbe solo essere onirico per conferire dignità alla nostra stessa esistenza. Sfinito dalla stanchezza e con il fiato corto, mi fermai e incontrai una vecchietta con al guinzaglio un cagnolino, che camminava con i piedi nudi (tenendo le scarpe nelle mani) in un sentiero di fango. Incoraggiato dal fatto di aver incontrato finalmente il primo essere umano dal mio ingresso nel parco degli orrori, le chiesi dove potesse trovarsi l'uscita più vicina e quale la direzione per la stazione. L'anziana signora, sino ad allora ricurva su se stessa, alzò allora lo sguardo ipnotico verso di me. I suoi occhi parevano infiniti cerchi concentrici dentro al cerchio dell'iride, ognuno di un colore contrastante col suo vicino. Cominciò a parlarmi in un tedesco incomprensibile, io la fermai e le dissi nella mia lingua che non conoscevo il tedesco e lei, dopo essersi un attimo fermata con un'espressione di assenso, come se avesse capito quello che le avevo detto ... continuò a parlarmi nella sua lingua! Mi sembrava di impazzire!! Forse ero già pazzo, ma lei continuava a parlarmi senza che io capissi una parola. Il mio intuito mi suggerì che mi stesse spiegando il perchè camminasse a piedi nudi nel fango, forse le era stato consigliato da un medico per le articolazioni, per la circolazione, non lo so ma guardando verso il basso vidi il mignolo di entrambe i piedi accavallato in alto verso le altre dita come se fosse completamente spezzato. Poi la vecchietta si mise a ridere in un modo gutturale, mostrando la sua dentatura marcia e il suo cagnolino cominciò a ringhiarmi e ad abbaiarmi rumorosamente mostrando dei denti affilatissimi e lucenti che fuoriuscivano dalla carne viva delle gengive che parevano gonfiarsi in bolle per poi esplodere in schizzi di sangue copiosi. Ormai in preda all'ansia più totale mi misi a correre lontano, sicuro del fatto che quel piccolo mostro ricurvo, impantanato nel fango con il suo piccolo ma terribile animale legato, non potesse seguirmi. La risata della vecchia strega fu presto riverberata da quella di tutte le statue attorno disseminate nel giardino, che cominciarono poi a spalancare le loro bocche sino a strappare le labbra scolpite in rinnovati cori di disarmonia, di una cacofonia che non dovrebbe essere la colonna sonora neppure dei peggiori incubi, che orecchie umane non dovrebbero mai udire perchè offenderebbero in note sconosciute ogni regola musicale, pure la più audace e controversa. Era tutto così assurdo, claustrofobico, un labirinto disordinato di follia nel labirinto della mia angoscia di paure che si smarrivano nella giungla dell'emotività eccitata. Trovai finalmente una piantina del parco con una freccia che indicava il punto in cui mi trovavo. La sensazione glaciale di paura che avevo provato sino a quel momento, mi gettò un attimo di ossigenante lucidità nella mente annebbiata dal torpore del panico e dello smarrimento, compiacendo la mia ricostruzione mentale del percorso fatto e della direzione che avrei dovuto seguire per uscire da quell'inferno di foglie, tronchi parlanti, aerei dirottati, persone alienate e cani mostrificati. Intrapresi una direzione tra quei sentieri impazziti, nella follia delle ombre anonime gettate nello spazio cupo e annichilente della notte nel giorno, da alberi giganteschi che, abbracciandosi tra loro e aggrovigliando reciprocamente i propri rami gli uni con gli altri, parevano amoreggiare tra loro in un'orgia infernale che stuprasse la verginità vegetale tramutandola in goliardia carnale, in modo tale da nascondere persino la più timida visione del cielo e fomentare dubbi anche solo sulla esistenza o meno di corpi nuvolosi sopra la mia testa. Mi pareva persino di udire i gemiti femminei, come di donne abbandonate al piacere, scaraventate dalla compostezza morale o ipocrita della civiltà nel carnaio assurdo di quel godimento selvaggio mentre rami di alberi penetravano le ombre negli anfratti resi tenebrosi dalle ombre di altri e mentre le statute continuavano a ridere di tutto ciò che vedevo attorno, forse anche di me. Dopo un'oretta di cammino verso quello che credevo fosse il mio sentiero verso l'uscita, ritrovai un'altra piantina. Osservandola attentamente ci misi diverso tempo prima di trovare la freccia che indicava il punto in cui mi trovavo proprio perchè quel punto era dalla parte opposta a quella in cui credevo di trovarmi. Pensai che o la mia mente provocata dall'emotività e dalla paura accecante, mi stesse giocando brutti scherzi, o le piantine erano truccate nel senso che qualche vagabondo per ammazzare la noia del tempo regalato dalla disoccupazione, si divertisse a cancellare con qualche artificio le frecce per disegnarne altre a caso, così da divertirsi a smarrire i malcapitati turisti. "Che idioti!!" pensai, convincendomi di quest'ultima ipotesi che rigettava l'idea della mia incipiente insanità mentale in favore di quella altrui. A quel punto mi convinsi di avvicinarmi al corso del fiume Isar, tenerlo ben sott'occhio e accompagnarne il tragitto percorrendo il viale che lo accostava lungo la sua riva, fino a quando sarei sfociato alla fine del parco o che fosse l'uscita nord o quella sud (più vicina al centro cittadino) ma che comunque mi restituisse al mondo della civiltà senza più alberi che gettassero ombra sulle mie certezze e nebbia sulle mie aspettative. Dopo aver accompagnato il corso del fiume per diverse centinaia di metri, qualcosa mi disse che forse stavo dirigendomi verso nord, allontanandomi ulteriormente dalla posizione del mio albergo. Ad un tratto ricordai di avere una piantina della città, la tirai fuori ma ovviamente non mi aiutò in alcun modo e altro non poteva fare dato che mi trovavo al centro di un manicomio di alberi di cui non conoscevo minimamente la posizione. Sapevo solo di trovarmi dentro quella che la mia piantina riportava come una grossa macchia verde al centro della città, uno specchio di natura selvaggia inghiottita dalla stessa civiltà, ma non sapevo in quale punto di quella "macchia" mi trovavo. Rassegnato ormai alla disperazione e sorpreso da un attacco d'ira contro il mio destino, gettai quella inutile piantina in un cestino, la cui bocca poi si chiuse prontamente sul mio gomito, stringendomi il braccio e divorandomelo mentre tentava di inghiottire tutto il mio corpo. Sferrai violenti calci contro il bidone fino a ribaltarlo per terra, liberando il mio braccio e correndo poi come un ossesso il più lontano possibile dal cestino carnivoro. Continuai a seguire il corso del fiume, quell'oscuro letto di acque verdi inaccessibili dal bosco e che però pareva essere il mio unico amico, il mio riferimento, la cui linearità riconsegnava ordine nella demenzialità e nell'ignominia dei disordinati sentieri del parco. Fu così che scelsi una sua direzione casuale e la percorsi sino allo sfinimento, convinto che o dal lato nord o da quello sud, mi avrebbe per forza di cose fatto uscire dal parco. La mia testardaggine mi premiò riconsegnandomi, dopo chilometri percorsi a ridosso del fiume, alla città e al suo ordine, cosa che poi mi permise di raggiungere, con l'aiuto di una rinnovata tranquillità a favore di una maggiore lucidità, facilmente l'albergo, riappropriarmi della mia valigia e prendere il treno sperato. Questo è quello che accadde in un folle pomeriggio di un giorno altrimenti normale di un piacevole soggiorno nella splendida capitale bavarese. Non so se quello che ho vissuto sia reale, frutto di un'allucinazione o il connubio di realtà e sogno, vita quotidiana e sua interpretazione soggettiva, ma ciò di cui sono sicuro è che non assumerò mai più sostanze psicotrope da uno sconosciuto in pieno pomeriggio, prima di addentrarmi in un grande parco di una immensa città che non conosco. La spavalderia talvolta lascia spazio alla perdita del controllo e la lucidità allo spasmo dell'angoscia, quando ci si addentra irresponsabilmente negli interminabili ed incomprensibili meandri del bosco ... forse solo della mente umana.


Emmanuel Gravier Menchetti.

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