mercoledì 19 ottobre 2011

MIO RACCONTO NOIR: LA CASA DEGLI ECHI


La casa degli echi
Scommetto che ciò che mi appresto a raccontarvi susciterà la vostra miscredenza, talvolta un macabro sorriso di sarcastica derisione, raramente, per i più sensibili all’inspiegabile ed alle forze mistiche dell’occulto, il terrore più assoluto. Un mio caro amico sosteneva una teoria audace. Era convinto che gli spiriti dei morti fossero imprigionati in uno stato gassoso che, finché privo di moto e solo a causa di questa provvidenziale mancanza, li rendesse invisibili e non udibili ai sensi umani. Credeva che i fischi del vento percettibili negli anfratti e nei vicoli del nostro mondo o in qualsiasi insenatura di un qualunque oggetto od al confine tra più corpi, non fossero altro che il richiamo dei cari estinti. Si batteva per impedire che la teoria dell’immaterialità dell’anima istupidisse le menti, ma non sostenendo che essa perisse con il corpo, ma preservando l’idea di una sua immortalità giustificandola, per contro, con la conservazione in uno stato, per l’appunto, materiale, ma gassoso e quindi in una mescolanza continua assieme ai gas dell’atmosfera. Scherzando, ero solito rispondergli che, affermando queste stravaganze più dialettiche che empiriche, era come preservare un’autentica follia equivalente al pensiero di una morte vista come evaporazione del corpo dal previo stato liquido e solido. Mi faceva ridere l’idea dell’evaporazione dei tessuti ed ero solito raccontarla ai miei compagni di sbronze, nelle sere autunnali passate a chiacchierare nelle crepuscolari cantine di antichi mattoni alla luce di candele. Mi chiedevo tra il fragore delle risa generali, quale putrido e mefitico odore potesse avere il miasma dei morti se a evaporare non poteva che essere il corpo nel suo finale stato di crescente decomposizione della carne. Vi era addirittura chi suscitò il quesito relativo alla improbabile posizione delle esalazioni cadaveriche nella gerarchia degli strati gassosi che, mano a mano, si allontanavano dalla terra vincendo la gravità. Poiché mi accorsi con un lieve ma già pericoloso e profetico ritardo, della serietà e della quasi eccentrica e bizzarra veemenza con la quale parlava a difesa delle sue sciocchezze e capricciose fantasie, ragion per cui dubitavo della sua stabilità psichica, mi convinsi a non offenderlo ulteriormente e gli consigliai amorevolmente di adottare un metodo scientifico per dimostrare i suoi azzardi teorici. La cosa che mi stupì era che il mio caro stravagante amico, si era già attrezzato per poter confutare le prevedibili reazioni alle sue tesi. Mi calunniò anzi come un infame di mala fede e mi rimproverò tenacemente per aver osato dubitare della ragionevolezza della sua mente. Non si spiegava come, pur essendo amici e pur condividendo una ormai decennale stima reciproca, io avessi potuto ipotizzare, anche solo per un istante, che il mio compagno di avventure si fosse permesso, con l’audacia di uno sciocco qualunque, di assurgere a una tale convinzione con la sola immaginazione o voglia puerile e dilettantistica di stupire, senza prima averne riscontrata l’attendibilità attraverso un metodo propriamente scientifico. Conoscevo da anni il suo interesse per la ricerca, l’antropologia, la chimica, la fisica e, d’altro canto, la sua parziale demotivazione verso lo studio di materie pur sempre di indagine, ma più letterarie quali, ahimè, la filosofia. Mi sentivo quindi in colpa per aver ipotizzato la improvvisa follia del mio amico, ma mi giustificai chiedendogli come avrei potuto diversamente accettare tali affermazioni non suffragate da un vero e proprio esperimento che mi rivelasse, in uno stato di percezione sensoriale che non fosse alterato dalle droghe che eravamo soliti prendere, la veridicità di simili idiozie. Notai che lo stato di convinzione del mio amico era tale per cui aveva completamente perso la ragione, non riusciva ad immedesimarsi nel comprensibile scetticismo di chi era all’oscuro degli esperimenti che, negli ultimi mesi, lo avevano isolato da qualunque relazione sociale. Rendendomi conto che affrontava comunque argomenti eterogenei e di notevole spessore intellettuale con la stessa ed immutata padronanza del passato, mi convinsi che il suo integralismo era dovuto a qualcosa che realmente lui aveva sentito. Me ne accorsi perché manifestava rabbia di fronte a chi lo derideva, un’ira incontrollabile che può scatenarsi solo dentro chi ha udito ciò che una mente sana non dovrebbe mai udire. Lo rimproverai per arrabbiarsi pretendendo credibilità dalle sole parole e lo esortai, poiché altro non potevo più fare, a mostrarmi i suoi studi. “Se Gesù in persona mi avesse parlato con le parole della Bibbia, sarei diventato il cristiano più integralista..” mi rispose sorridendo e difendendo, almeno per quell’istante, lo scetticismo tipico della scienza. Il ritorno, seppure a rari sprazzi, della sua ironia pungente mi rasserenò per un attimo sulla sua salute mentale perché mi faceva pensare che, in fondo, il mio amicone di sempre non era poi così mutato dai nuovi eventi. Aveva sempre goduto o talvolta sofferto di grande immaginazione, ma la ragionevolezza lo aveva sempre salvaguardato dal desiderio infantile di evadere dalla verità cercando l’emozione cinematografica e narrativa dei registi e degli scrittori. Dalla conclusione di tutte queste mie segrete deduzioni, mi convinsi a seguirlo pur con qualche timore di cadere nella rete della follia. Più felice è chi vive la propria vita nell’edonismo, lontano dalla ricerca della verità per sé e per l’umanità intera. La salute della mente sta nell’ignoranza di chi mai potrebbe solo immaginare ciò che alcune menti hanno sentito nei meandri dell’oscurità. Il mio amico mi portò in una vecchia magione famosa per essere già venerata da occultisti e per essere il terrore delle sensitive di tutta la contea. Furono proprio tali dicerie a fargli scegliere tale dimora quale laboratorio per le sue ricerche. Voleva dare una spiegazione scientifica a tali leggende e si impossessò del rudere per qualche mese nell’intento di cominciare a costruire ciò che, a suo dire, sarebbe stata la macchina che avrebbe portato a conoscenze sconvolgenti per la salute psichica dell’umanità intera. Disse di aver vissuto nella dimora abbandonata per tre lunghi mesi, installando apparecchiature per la registrazione professionale di qualsiasi frequenza sonora, con l’ausilio di microfoni in ogni angolo ed anfratto del loculo. Quando giunsi nella casa, rimasi esterrefatto per il traffico di cavi elettrici che il mio amico aveva provocato e che, esteticamente, contrastava con la mobilia antica, in parte fradicia, ma testimone di una passata e aristocratica opulenza. Mi stupì come quell’arredamento fosse rimasto sguarnito come se, chi ci aveva abitato prima, si fosse allontanato dalla propria dimora frettolosamente, senza neppure avere la cura ed il tempo di vendere un solo mobile o un tavolo. Gli chiesi di farmi ascoltare le registrazioni effettuate ma mi rispose che non era ciò che voleva mostrarmi. Desiderava che ascoltassi le voci parlarci in quel momento così come nascevano udendo le parole degli spiriti che a noi, in tempo reale, si rivolgevano. Fu allora che alzò un telone e mi mostrò un’enorme ventola riparata da una grata circolare in ferro battuto, del diametro di un metro e mezzo. Era di sua costruzione, regolabile in diverse velocità. Secondo la sua bizzarra teoria, gli echi degli spiriti lontani che avevano vissuto nella casa secoli prima, potevano essere resi udibili all’orecchio umano scotendo l’aria in cui essi erano imprigionati, in un movimento circolare, ad una tale velocità da separare le frequenze sonore degli estinti dalle particelle di ossigeno in modo da rinchiudere le prime nella gamma dei segnali acustici percepibili dall’uomo. In tale evenienza si poteva ascoltare ciò che i morti ci imprecavano in tempo reale pur non avendo la prova né il più timido indizio che loro potessero sentire la nostra voce. Disse di aver registrato soliloqui funebri e non di avere dialogato con i morti. Gli risposi che probabilmente gli echi che diceva di sentire potessero essere semplicemente frequenze imprigionate nella cassa armonica della stanza, provenienti dal passato, ossia dalla voce di persone avventuratesi nello stesso posto di recente. Fu allora che mi pregò di tacere e di afferrarmi a grosse maniglie d’acciaio saldate all’apparecchio, per non volare in preda al vento artificiale, quello che, a velocità inaudita, avrebbe rivelato il pensiero dei morti ad un tale volume, da occultare lo stesso rumore del moto aereo. Accese particolari incensi ordinati dall’India nella stanza, sostenendo che la loro composizione chimica avrebbe depurato l’aria delle particelle di vapore acqueo, responsabili della pesantezza e della conseguente resistenza dell’aria allo spostamento nonché dell’eccessivo riverbero sonoro che il suo moto avrebbe provocato non rendendo distinguibili gli echi ricercati. La sua immaginazione era al limite dell’ impronunciabile. Mi sentivo un idiota a farmi ammanettare a quelle maniglie ma mi convinsi che di lì a poco il gioco sarebbe finito e lo avrei convinto a rivendere le apparecchiature per la registrazione digitale e a distruggere quella ridicola macchina attira spiriti. La cosa che invece sentii quando le pale della ventola cominciarono a girare a velocità inaudita non fu semplice rumore del vento seppur modulato dall’effetto-sordina provocato dagli incensi. Un mugugno impercettibile, un mugolio infernale del quale non riuscii a distinguere le parole perché era simile a quello di una bestia come se esseri mostruosi privi delle caratteristiche umane avessero abitato in dimore civili o le avessero successivamente invase. Ma la cosa che mi spaventò terribilmente e per la quale ancora tremo con un brivido a ricordarla, l’abominio sonoro per il quale, in preda alla forza del vento, cercai invano di gridare di spegnere quella maledetta diavoleria da lui costruita, doveva ancora arrivare. Riuscii successivamente a convincerlo a distruggere la sua macchina per questo. Non furono le parole che sentii da un improbabile spirito. Fu il suono che qualche insulso essere aveva emanato, a terrificarmi...e la voce, o meglio, la sua eco riportata dal più recente passato con l’aiuto del vento, la voce del mio amico che di fronte a me, nell’immediato presente, non stava nemmeno aprendo le labbra. La sua stessa voce che urlava:
Oddio, vattene, ti prego, vattene!!…
Emmanuel Gravier Menchetti

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