mercoledì 19 ottobre 2011

MIO RACCONTO NOIR: IL QUADRO.


IL QUADRO
La mente umana dovrebbe essere
lasciata all'oscuro della conoscenza,
onde evitare di condurre l'intera società
verso la molestia della sua sensibilità
e la pazzia più deleteria che ne conseguirebbe,
abbandonando le speranze
al delirio ed alla demenza...
Mi ritrovai in un freddo pomeriggio dell'autunno del 1925, in mezzo ad una improvvisa tempesta di pioggia e vento sotto un cielo plumbeo, nero in alcuni frangenti come la pece, mentre passeggiavo solo (come era mio solito fare) per il centro della città alla ricerca di negozi e di me stesso in questa esistenza terrena. La minaccia di un temporale scagliato dall'ira di un empireo, alla visione di noi comuni mortali, precluso, mi spinse a rifugiarmi nella prima bottega che mi capitasse a tiro, solo nell'intento di trovare un momentaneo riparo in attesa che la pioggia finisse. Appena mi voltai verso l'interno del loculo, dopo aver osservato dalla lurida finestrella la gente che nella via scappava inseguita da uno scroscio ignobile e poco propenso ad incoronare l'umanità di dignità, fui come fulminato da una sensazione che mi agghiacciò all'istante. Il negozietto pareva più una cantina abbandonata di vecchi oggetti impolverati e disordinatamente accatastati tra di loro, divorati dalla perfidia noncurante dell'oblio che pure i ricordi annichilisce come un'onda che cancella una dichiarazione d'amore incisa sulla sabbia della battigia. Nonostante che il mio irrequieto ingresso avesse deflagrato nell'aria polverosa le frequenze acute dello scampanellio liberato dall'aprirsi della porta d'ingresso, nessuno arrivò per accogliere la clientela, come se la bottega fosse deserta. Con il tipico sarcasmo e umorismo nero di matrice anglosassone che caratterizza il mio stile e bagna il limbo della mia attitudine persino di fronte agli imprevisti più curiosi, chiesi ad alta voce e con un tono di finta e sofisticata derisione che malcelava e tradiva la mia inquietudine, se mi fossi imbattuto in un negozio gestito da fantasmi. Poichè voce umana non interruppe il silenzio che solo veniva disturbato dal ticchettio di un pendolo a muro, chiesi, alzando ancora gradatamente il volume della mia voce e stavolta con tono più serioso proporzionato al crescente imbarazzo e difficoltà del capacitarmi nel comprendere dove mi trovavo, se ci fosse qualcuno che potesse degnare della sua attenzione la mia presenza. “Mi scusi ma non un'anima viva passa di quà da giorni ormai … ero di là ad ordinare delle carte e non vi avevo sentito ...” proferì un vecchietto decrepito e ricurvo su se' stesso mentre si trascinava sui suoi piedi intento con parziale successo ad avvicinarsi al mio cospetto da un angolo buio e nascosto. La dentatura fradicia e scarna, la pelle squamata e riversa su se' stessa in pieghe di lascivo abbandono e sudiciume, il cappello ed il cappotto bucati e luridi, mi riportarono alla mente ciò che è più ignobile e distante dalla pur autoconservatrice vanità, ciò che è privo di amore per sè, conducendo la mia suscettibilità verso l'offesa, l'affronto di continenti indegni che mai umana sorte dovrebbe attraversare e che non conoscono presente ma solo l'occultamento di un passato deplorevole e ostile da rimuovere nella memoria della storia. L'essere che mi trovai improvvisamente innanzi, pareva un cadavere dimenticato dal tempo, dall'evoluzione della scienza, persino dalla noia come se nulla dovesse preoccuparsi della sua esistenza. “...Un'anima viva non entra qui?...” domandai timidamente come a fare eco della sua curiosa esclamazione; “certo...non un'anima viva, è per questo che sto accatastando i miei mobili....chiuderò la mia attività ed attenderò che la morte mi accolga nel suo grembo”. Nel sottoscala del mio pensiero silente, argomentai che dal suo offensivo aspetto, pareva che la morte lo avesse già ospitato al suo convitto da un qualche indecifrabile tempo ma dato che non ebbi il coraggio di mostrare il mio cinismo, controbattei codardamente “ … ma quindi, ciò che vedo qui accatastato è ciò che lei vendeva?...di cosa si occupa?...mi scusi ma mi sono rifugiato qui solo per ripararmi da questo temporale infame...” - “Non si preoccupi, lo immaginavo, io vendo oggetti d'antichità, antiquariato, mobili di varie epoche capitolati dalla storia, archiviati dall'umana memoria che tutto getta dietro di se' nel suo dinamismo senza sosta; questo posto cela nel suo cappotto un pezzo di passato, racchiude dentro le sue mura desolanti, un frangente di tempo che appartiene già ai capitoli di un volume di storia; io commercio ciò che trascende le mode ed i gusti, ciò che conserva degnamente il suo portamento e fascino, incorruttibile alle tentazioni di amnesia del tempo”. Ipnotizzato dal peso solenne di quelle parole e dallo spessore delle sue astrazioni mentali, mi aggirai per il negozio dedicando ora una più profonda accortezza a tutto ciò che s'insinuasse nel mio campo visivo, col fermo pensiero che quell'essere proveniente anch'esso dalla incorruttibilità di ere passate, fosse dotato di quella abile dialettica che trasforma un conoscente casuale in un possibile e ben accetto compagno di viaggio e di piacevoli conversazioni da salotto intellettuale, pur sfocianti in audaci elucubrazioni parossistiche, e di un commerciante improvvisato in un intraprendente imbonitore di menti, altrimenti poco avvezze all'acquisto. Ma ciò che più mi colpì fu l'immaginazione scaturente dalle sue parole che fa di un essere qualunque, un profilo degno di attenzione e della sua sensibilità, il letto di passioni spesso legate al piacere nobile della letteratura e dell'indottrinamento scientifico e astronomico che mal si abbinava al suo aspetto apparentemente rassegnato all'apatia. Ad un tratto la mia attenzione fu rapita da un dipinto appeso al muro tra due armadi. Dal principio la curiosità che è tale per cui l'uomo divenisse fortuitamente scienziato e scopritore, fu la stessa motivazione che mi spinse a chiedermi come mai fosse l'unica tela esposta nel pittoresco magazzino ma, forse per discrezione o perchè mi parve che le mie precedenti domande lo avessero già messo nell'imbarazzo di rispondervi forzatamente ma adeguatamente, evitai di porgli l'ennesimo quesito. Ad un secondo e più attento sguardo, la mia sete di conoscenza fu colpita dall'immagine ivi raffigurata, ossia quella del busto di una donna vestita con un cappello ed un corpetto probabilmente provenienti dal periodo tardo rinascimentale e di matrice aristocratica quasi si trattasse di una regina o una contessa, dall'aria austera tipica di chi detiene orgogliosamente il potere e le redini della sorte del popolo maggioritario, e di una severità che solo conosceva secoli passati e che denotava ed imprimeva nell'animo di chi la osservasse, l'apogeo di ciò che più bieco nell'immaginario terrorizzerebbe le umane speranze e scuoterebbe la suscettibilità dal torpore della sua esigenza di tranquillità e bramato desio. Nell'incontro delle sottili labbra serrate in una smorfia di ambigua freddezza, percepii come l'incarnazione di ciò che la nostra fantasia incarnerebbe nel sentimento dell'invidia. Nausea e fastidio, disgusto e ostilità furono le disgrazie inabissate di quel lago di malessere che quel disegno trasmise per osmosi alla mia eccitazione. Dietro di lei vi erano come tre ombre, tre sagome di busti umani delle quali una pareva non avesse la testa. Alla seconda necessità di delucidazione su quella curiosa opera figurativa, non seppi e non volli allorchè resistere. “Chi è costei che ha l'onore ed il probabile merito di esser qui ritratta?” chiesi con un velo di temerario azzardo. Da quel punto non so se tutto ciò che accadde poi fu frutto della mia immaginazione o realmente si manifestò in forme parallele alla nostra dimensione e concezione, aldilà della nostra conoscenza verso lidi oltre i quali mai mente pensante e dotata auguratamente di un minimo di buon senso, dovrebbe avventurarsi. Dalla lettura dei diari che successivamente un ispettore di polizia trovò nel mio tavolo di lavoro, a fianco della macchina da scrivere con la quale solevo adoperami nel mio mestiere di giornalista e critico letterario, fogli vergati a mano da una calligrafia quasi irriconoscibile e che tradiva un'inquietudine profonda e in un probabile stato di delirio catalettico dato che non ricordo di aver scritto, si sentenziò frettolosamente che ero un pazzo e da quel giorno sono qui rinchiuso nella cella di questo manicomio per malati e deformi mentali, dalla quale vi sto ora scrivendo ed in cui la sociale accettazione mi ha abbandonato senza la più benchè minima speme di tornare in libertà. Ricordo che lo sguardo del vecchio, di fronte al mio quesito, cominciò a tremare consentendo alla mia immaginazione di accompagnare la sua mente ottenebrata in mari tempestosi, scossi da venti gelidi provenienti da improbabili terre oscure e mai emerse, prive totalmente del sentimento dell'umana compassione con la inquieta veste dell'assolutismo e del più intollerante diniego. I vortici della mia probabile fantasia eccitata ed impazzita, trascinarono poi anche me in un inferno di paludi di plasma purpureo sulla superficie delle quali galleggiavano parti di corpi di donne smembrate e con le gole recise come da giganteschi rasoi, da cui inondavano sangue per abbeverare il letto paludoso e putrido dei sinistri acquitrini. Udii poi urla di voci femminili che mai mente sana dovrebbe udire e che scosse irrimediabilmente il mio autocontrollo ed il fascino del mio contegno di trascrittore, inebriando pure la forma degli infimi resoconti letterari di cui la mia memoria si rifiuta categoricamente di riconoscerne il merito. Parevano come gridi di donne che venissero squartate o scuoiate in preda alla più totale follia, che colpisce chi malauguratamente si trova nella piena consapevolezza dell'orrore che lo sta divorando nel momento stesso in cui l'abominio lo inghiotte. In mezzo alla palude, immersa nei miasmi dei tessuti putrefatti e rivoltati delle interiora, vidi una donna, l'unica anima viva in quell'inferno forse onirico, forse reale e solo futuro ma macabro e superlativamente privo del sentimento della pietà e dell'empatia per l'umana condizione di miseria e dolore, una fanciulla il cui volto pareva somigliare a quello del ritratto e che nuotava facendosi spazio tra organi squarciati e pezzi di membra affettate come da maceti impazziti e vigorosi. Ad un tratto le mie visioni si calarono sull'immagine di una donna accasciata e deperita, priva di forze e probabilmente malnutrita, in una stanza murata, senza porte ma solo pugnalata da una piccola fessura, una feritoia vicino alla quale vi erano piatti di pietanze lasciate a marcire senza lasciare traccia alcuna di pasti consumati anche solo parzialmente. Ebbi come l'impressione che quella folle suicida desiderasse rifiutare di nutrirsi. Udii poi un ultimo lamento, come di un essere prossimo a spirare e lasciare le ambiguità di questo mondo per un nonnulla di non certo ed un tonfo sordo come quello di un corpo che cade senza opporre resistenza alcuna alla gravità, che prima o poi vincerà qualunque dei nostri corpi ora eretti. Solo questo ricordo, prima di risvegliarmi in questa cella che a quella sognata somigliava, accusato di demenza e di aver trascritto diari di perversione per i quali giuro di non essere l'autore, come in preda della guida di un'entità malvagia, pervenuta a vendicare e riappropriarsi delle sue provocazioni. Per il resto non so null'altro se ciò che ho visto e che mi ha abbandonato all'alienazione ed alla riconosciuta psicopatia, sia stato reale o frutto dell'immaginazione e francamente fatico anche a delinearne ormai il confine, ammesso e non concesso che esso esista nella percezione che la nostra mente ha delle due dimensioni soggettive. A riguardo del quadro di fronte al quale la mia presunta follia cominciò a manifestarsi (stando alla testimonianza dell'infame anziano commerciante), il giorno che mi condussero in questa cella putrescente, venni a sapere che raffiigurava la terribile Contessa Bathory, deceduta nel 1614 e ritenuta responsabile dell'omicidio efferato di un numero imprecisato di giovani donne ma comunque superiore certamente al centinaio. Le sagome dietro di lei, nel resoconto del pittore che morì in preda a strane crisi epilettiche solo una settimana dopo il termine dell'opera, rappresentavano i presunti complici dei suoi scempi omicidi, ossia Fizkco, decapitato e gettato poi nel fuoco in seguito all'accertamento delle sue responsabilità nei crimini commessi, Ilona Joo a cui vennero amputate le dita e Dorko. Ora l'anima dell'autore di quel dipinto riposa in pace o forse è ancora vittima di quelle stesse visioni, perpetuamente condannato alla miseria per l'audacia di aver ricreato il male, destandolo dal suo prezioso letargo. Forse quell'inferno eterno attende anche me mentre ora sto marcendo nel buio di questa cella, in un mondo che disconosce ormai l'equilibrio del mio intelletto, gettando infamia e discredito, con la complicità della redazione per cui lavoravo, anche sulle pagine che mi hanno dato da vivere fino a quel maledetto incontro.
Emmanuel Gravier Menchetti.

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