venerdì 3 agosto 2012

RECENSIONE CINEMATOGRAFICA: "THE DOORS" - OLIVER STONE (1991)


Cominciamo a dire che il sottoscritto adora la musica dei Doors. Cominciamo a sottolineare che il regista di questo film che dovrebbe, già dal titolo, porsi come un’autobiografia, almeno nelle linee cardine e nei binari perseguiti, della band citata poc’anzi e che, cerimoniosamente, conferisce il nome allo stesso film, non è proprio un artista di primo pelo nel mondo del cinema, si pensi ai buoni “Platoon” e “Nato il 4 luglio”; autobiografia…certamente…ma con quelle sacre concessioni che tanto teneramente si fanno al cinema, lasciandolo parafrasare il concreto in elucubrazioni spettacolari che hanno il potere di rendere maggiormente auto-celebrativo un avvenimento, con la commozione di chi i fatti li sa interpretare artificiosamente e questo è il noto potere immaginativo della fiction. Si pensi che per una pellicola di tale portata, responsabile della reputazione della leggendaria band nell’immaginario collettivo delle generazioni venute a seguire, dopo il loro scioglimento e la morte del re-lucertola James Douglas Morrison, i saggi Ray Manzarek e Robby Krieger hanno sfruttato la loro inevitabile interpellanza da parte di Stone, fornendo aneddoti con tutta la lucidità possibile onde offrire un quadro che fosse il più possibile una messa a fuoco sulla torbida immagine dei loro ricordi ormai di più di 20 anni prima. Lo stesso Manzarek stette due interi giorni con il regista a raccontare fatti e a tentare di dare una descrizione di Morrison (che poi diventa l’indiscusso protagonista del film … ops … sono già partito a sputare la prima critica, non c’è niente da fare, è più forte di me!!) e della storia (quella realmente accaduta!) che fosse per lo più possibile fedele alla realtà, in modo da lasciare a Stone un quadro il più possibile concreto e attinente sul quale lasciare poi il regista svolgere il proprio lavoro. Lo stesso Val Kilmer, scelto da Stone non solo per la sua imbarazzante somiglianza con il cavalca serpenti, si esercitò per ben un anno a cantare i brani dei Doors attraverso uno studio che rende gli americani decisamente professionisti indiscussi nel cinema, attraverso quel know-how proverbialmente hollywoodiano, quella magia del cinema d’oltreoceano che tramuta (per la nobile causa dello spettacolo a cui l’americano medio con tanto di pop-corn sulla pancia e cappellino non può rinunciare) tutti gli attori improvvisamente in cantanti (appunto), surfisti, combattenti, poliziotti, scrittori o quant’altro. Viste le premesse, questo film aveva quindi tutte le carte in regola per rivelarsi un capolavoro. Così è stato? Non del tutto. Il film è romanticamente commovente, indiscutibilmente emozionante, almeno in vari tratti salienti. In molti altri è per contro pacchiano a tal punto da renderlo disturbante (si pensi alla scena in spiaggia tra Morrison e Manzarek in cui quest’ultimo, sentendo anche solo una strofa stonaticcia da parte del primo, si alza improvvisamente in piedi e comincia a parlare di successo, di creare miti da controbilanciare alla guerra del Vietnam dall’altra parte dell’oceano, alle svariate e grottesche scenette da puerile rockstar come rapporti orali consumati negli ascensori, in studio di registrazione, a bevute di sangue in improbabili riti, balletti sui cornicioni dei palazzi a trenta metri d’altezza sul traffico fino alla leggendaria frase della sua fotografa … e qui raggiungiamo il culmine della pacchianeria… “Jim sei il Dio del rock…e del cazzo”!!!!). Questi sono i tratti imbarazzanti del film a livello puramente cinematografico e che danno di Stone l’immagine di un bambinetto mai cresciuto in cerca di emozioni deboli e anacronistiche, già passate di moda da più di 20 anni e che non tengono conto del raffronto con un pubblico moderno quale quello dei primi anni’90, epoca in cui uscì il film, ormai stufo degli  sbandierati epiteti dei ’60 e di quella gioventù rivoltosa di cui tanto abbiamo sentito parlare (e da cui abbiamo preso molto poco!). Il problema più grosso è però che qui non si parla di un gruppo immaginario o meglio, i vizi di questa pellicola si arresterebbero qui se si parlasse di falsi miti creati dalla fantasia del regista. Il vero dramma è che qui si narra la storia dei Doors e anzi, questo film è assolutamente responsabile dell’immagine che le nuove generazioni (quelle che non li hanno conosciuti ai tempi del loro successo) fotografano di quella band dato che, ben pochi oltre ad ascoltarsi qualche disco, hanno avuto la nobile curiosità di informarsi sulla loro storia. Il film oltre che ,come già sottolineato, si incentra quasi esclusivamente sulla figura di Morrison (ma questo ce lo potevamo aspettare!), sottolinea solo la sua componente caciarona, ribelle e scapestrata, ponendo enfasi sulla sua dipendenza dalle droghe (e anche questo me lo aspettavo!) e quando invece ha spostato giustamente le telecamere anche sul lato poetico e romantico del cantante, lo ha fatto in modo innanzitutto falso depositando sulla sua bocca frasi rubate a Rimbaud (che Morrison non nascondeva di amare ma proferite come se se ne fosse impunemente appropriato) e poi esagerato e pacchiano da renderlo inevitabilmente puerile e imbarazzante, risultando evidente che la scelta del regista sia andata banalmente a indirizzarsi sulle emozioni facilmente eccitabili, sulla proverbiale suscettibilità di ovvia presa di un  pubblico possibilmente adolescente e questo è un neo, un’ombra che non ci si aspetterebbe da un regista come Stone. In conclusione, un film emozionante se letto con la fuorviante chiave di lettura di una fiction, una legenda puramente narrativa in cui tutto sarebbe impunemente concesso al libero arbitrio della regia per essere gettato in pasto alle bocche voraci di un pubblico tendenzialmente giovane e sognatore, ignaro e affamato. Un film finto, una scombinata millanteria se osservato con la lente di ingrandimento di uno sguardo adulto e consapevole sui fatti realmente accaduti e su quello che era concretamente Morrison e i suoi leggendari soci.

EMMANUEL MENCHETTI
VOTO: 7

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