Per quale motivo sciocco ed auto-referenziale dovremmo pensare di essere soli nell'universo? ... Non è forse questa infinità di spazio nella quale il nostro pianeta è sospeso, come fluttuanti e inconcluse sono le nostre stesse ipotesi e ricerche, qualcosa che potremmo semplicemente rassegnarci ad accettare come superiore alla nostra capacità di conoscenza? Non è forse nell'ammissione e nel rispetto della propria esiguità e circoscrizione intellettuale che sta la saggezza del pensiero? Perché dovremmo illuderci di essere soli in una dimensione spaziale della quale non conosciamo i confini? Possiamo teorizzare che esistano limiti nello spazio? Non è forse possibile che esista una misura della grandezza che non conosca né la sua fine, né il suo inizio? E' la nostra mente, con la sua caducità temporale e la sua ciclicità fisica, che riassume il tutto in qualcosa di finito, percepisce solo il percepibile, comprende e asserisce solo ciò che nasce e si consuma nello stesso modo in cui associa, per metafore, alla propria essenza, l'ambiente esterno alla sua stessa futilità. E' allora che la mente umana, per sua natura ricercatrice, di fronte alle irrisolte questioni sulla provenienza dell'universo, sull'identificazione del momento x dell'inizio e sui limiti spazio-temporali del tutto, trovandosi incapace di negare né di accertare, crea l'idea di Dio ed a questa improbabile essenza assiomatica, che necessariamente si sarebbe auto-creata, fa risalire il principio e la causa di tutto. Ma se credessimo anche di essere le sole creature di un ipotetico demiurgo di materia e tempo, se ci convincessimo di essere soli nell'universo, non sarebbe forse essa stessa una ipotesi terrificante? Non sarebbe meno orribile di temere di non avere alcuna compagnia in una stanza vuota e buia, di cui non conosciamo gli angoli più nascosti? ... Pensare, per contro, di essere invece affiancati a qualcuno o qualcosa di vivente nella stessa stanza buia, senza poterne però ammirare la sagoma, non è forse altrettanto terrificante? L'unica verità assoluta è allora la condivisibile percezione di orrore e raccapriccio che sia l'una, sia l'altra ipotesi, ci provocherebbero. La paura partorisce solo l'idea di ignoto ed informe ed è ancor più vero quanto ciò che, pur nella sua obiettiva mediocrità o bruttezza, se lo si riconosce, quindi lo si codifica, gli si conferiscono attributi dell'essere, diventa concreto e familiare, trasmettendo l'abitudine a cui istinto naturale e ragionevolezza, conseguentemente e reattivamente, si confanno. L'unica risposta è allora la formulazione di una nuova domanda che parta dalla sagace ammissione della propria incapacità di conoscere, della propria ignoranza di non sapere con cui distinguersi dall'inciviltà, stavolta nello stile e nella gestazione del pensiero ancor più che nella mera sostanza, di chi crea figure divine come capri espiatori, al solo scopo di difendere la propria incapacità di rispondere. Tutto nasce da una domanda e alla domanda torna perché i quesiti non sono etimologicamente fatti per avere risposta, altrimenti si chiamerebbero assiomi ossia domande indipendenti dalla risoluzione, che generano quindi onanisticamente risposte false, per natura, dal proprio grembo. Ma non voglio annoiare il lettore con turpiloqui di cui io stesso scrivo un'apologia della irrisolutezza ed ho fretta di raccontare. Tali quesiti si muovevano come satelliti nella mente del mio protagonista, tra libri di scienza e articoli su visioni di oggetti volanti non identificati, a scandire la noia di una vita rurale, altrimenti vissuta solo tra i campi di un piccolo borgo di campagna. Un giorno incontrò una giovane ragazza, vedendola uscire da un locale sulla strada che, a poche miglia, portava a casa sua. La vide la prima volta, la osservò chiedendosi chi fosse e di dove venisse dato che il paese era piccolo, distante diverse ore di auto dal primo centro cittadino e tutti si conoscevano. Armonizzò dentro di sé pensieri e quesiti che volgevano dal chiedersi se fosse una forestiera, una turista che si era persa entrando nel pub per chiedere informazioni sul tragitto, al perché una persona avrebbe dovuto, seppur per sbaglio, passare per quelle lande così desolate. Il giorno che la vide per la prima volta, la notò allontanarsi verso un campo brullo dietro a dei cespugli, percorrendo un sentiero improvvisato ma in cui la vegetazione mostrava di essere stata già calpestata almeno qualche volta. Dopo questa celestiale visione la donna scomparì ai suoi occhi. Entrò allora di fretta nella porta della locanda da cui la misteriosa donna era uscita e chiese informazioni a suo riguardo, interrogando chi serviva birre dietro al bancone, ma ottenne solo esclamazioni evasive. Pareva che la donna misteriosa fosse entrata, si fosse messa in un angolo da sola ad osservare la gente e poi se ne fosse andata senza parlare con nessuno. Questa descrizione vestì la forestiera di arcano, di incomprensibile, suscitando ancor più la curiosità di conoscerla. Qualche giorno dopo la rivide dalla strada, rientrare nella stessa locanda, fu sicuro di riconoscerla, e decise allora di seguirla. La vide seduta sola in fondo al bancone ad osservare i clienti con occhiate rapide e circospette, come se aspettasse qualcuno, gettando così ponti di analogie con il primo racconto su di lei che aveva ascoltato, anche se la dialettica dei rozzi contadini di un villaggio di campagna, mal si addiceva a permettere di cogliere raffinati dettagli di osservazione, e inopportuna si mostrava nel saperli trasmettere verbalmente. La vide poi alzarsi e uscire dal locale, senza parlare con alcuno e la seguì. Percorse lo stesso tragitto, il sentiero con la vegetazione appena calpestata, seguendo le sue orme, poi la chiamò. Lei si voltò, gli sorrise e sparì dietro un cespuglio che celava uno sterrato attorno ad un vecchio casolare decrepito, inabitato da decenni. Pensò che fosse una nuova inquilina ma si stupì che il casolare non recasse segni di lavori di ristrutturazione, ma si mostrasse invece nello stesso stato di degrado ed abbandono al quale aveva abituato a mostrarsi. Il fatto che rendeva il tutto ancora più misterioso era che da quando era comparsa nel villaggio la misteriosa donna, erano accadute cose insolite. Stormi di uccelli avevano cominciato a defecare in volo insoliti liquidi simili ad un plasma rosaceo, cani abbaiavano di fronte alla visione del nulla e gatti si contorcevano in pose innaturali, emanando miagolii striduli come se qualcosa li stesse infastidendo. Innumerevoli sono le vie percettive dell'istinto animale come informe e a perdita di vista è l'immaginazione umana di fronte all'insolito, quale provocherebbe la visione di un oceano sommerso dalla nebbia in fusione col cielo, dalla cima di un dirupo a picco su di esso. Dopo notti insonni passate a fantasticare sulla nuova presenza, decise di appostarsi nelle vicinanze del casolare per fermarla e parlarci, tentando così di fare ciò che nessun abitante, paradossalmente curioso, del borgo, aveva fatto prima. Non passò molte ore di attesa dietro ai rovi a poche decine di metri dalla casa, quando la vide uscire e incamminarsi verso il sentiero. La seguì, le si piantò innanzi e le parlò. "Sei nuova di qui?" le chiese. La donna lo guardò come spaventata. "Abiti in quel casolare?" lei gli sorrise ma non rispose. "Se sei nuova di qui ti posso aiutare a dargli una sistemata! io faccio il contadino, ho costruito un capanno qui vicino dove tengo arnesi e ho anche un orto, se vuoi ti porterò qualche prodotto della mia terra... se ti va". La donna lo guardò, lo fissò come se vedesse un qualcosa di magnifico, di straordinariamente irriconoscibile e diverso da tutto ciò che avesse conosciuto prima. Sfiorò il contadino con mani ossute. L'uomo sentì le sue dita fredde come il ghiaccio. Osservò i suoi occhi senza ciglia né sguardo, all'interno dei quali l'iride in assenza della direzionalità delle pupille, pareva invadere con un univoco colore bluastro, tutto il bulbo. Percepì la stranezza di quella visione. Sembrava che la donna non avesse conosciuto figura umana prima e che fosse incapace di parlare. Forse era muta, pensò l'uomo. Ad un tratto si bloccò, come se fosse stata colta da profonda ipnosi. Lui cercò di muoverle le mani di fronte agli occhi ma era come se lei non le vedesse, non rispondeva minimamente ai gesti, come se la sua mente fosse imprigionata in uno stato comatoso, lontano anni luce dalla realtà sensibile. Impaurito dal fatto che potesse essere colta da un ictus o una qualsiasi forma emorragica di privazione del pensiero, la afferrò per le mani, ma il suo corpo era rigido ed impiantato sui propri piedi come se questi, a loro volta, avessero tessuto radici sotto al terreno. Rimase in questo stato di privazione della coscienza per alcuni minuti di assoluta impotenza e sospensione di ogni forma di vita neuronale e molecolare. Poi sembrò riprendersi, ma con lo stesso sguardo perso nel vuoto e la fronte ora aggrottata, in antitesi con la previa distensione dei lineamenti ma ancor privi di rughe nella pelle, si girò e, senza parlare, camminò indietro lasciando di sé solo la visione della chioma di capelli a gettarsi sulle spalle curve, tornando al casolare sino ad entrarvi e chiudere la porta dietro di sé. Dopo quell'avvenimento le notti insonni passate a tentare di capire, per l'uomo, si moltiplicarono. Cercò anche di fare domande in giro ma non riuscì ad ottenere alcuna informazione sulla misteriosa donna, dai compaesani che, anzi, lo deridevano di fronte al racconto di quella vicenda. Cercò di parlare dell'accaduto con un medico che trovò solo in città a diverse miglia dal paese, implorando una sua visita a casa della malata ma lui si rifiutò di recarsi sino in contea, sostenendo che non facesse parte della sua giurisdizione di copertura sanitaria. La soluzione dell'arcano non era che nelle sue uniche forze. Si decise allora ad aspettare il momento più opportuno per recarsi nel casolare e far luce su ciò che stava accadendo. Intanto morie di pesci con branchie gonfie e livide e bulbi oculari fuori dalle loro orbite, infestavano i ruscelli, accatastandosi in mucchi di cadaveri e formando dighe che ostacolavano il defluire delle acque mentre le piantagioni di patate, sedani e carote stavano morendo disseccate anche se non erano cadute meno piogge del solito in quella stagione. I cavalli perdevano la loro criniera e nessun insetto ronzava nel cerchio di qualche decina di metri dal casolare, lasciandolo in un silenzio irreale in cui l'aria che si respirava tutta intorno, era come corrotta da un aspro e acidulo odore di marcio, quasi se sostanze organiche fossero state abbandonate in uno stato di putrefazione al suo interno. Col passare dei giorni, le contaminazioni dell'aria, dell'acqua, degli animali e dei raccolti, non risparmiarono neppure gli umani. Alcuni di questi persero ogni bulbo pilifero, capelli, ogni sorta di pelo pur dal naso o dai lobi delle orecchie, anche le ciglia e tutti gli altri che non erano ancora perfettamente calvi e nudi come neonati, se ne fuggirono nelle lontane città a raccontare storie improbabili di infestazioni chimiche dei campi, forse ad opera di attentatori di religioni o culture ostili. Una notte, più silenziosa delle altre, uno stato di sonnambula agitazione delle membra svegliò l'uomo di cui vi ho parlato, e lo guidò contro al suo volere, prigioniero di uno stato ipnotico, per un paio di miglia fuori dalla propria abitazione, fino al casolare dei misteri. Era per la sua mente scossa dal previo torpore onirico, come vivere un nuovo sogno con la stessa impotenza della volontà, ma trascinato da una forza che concretamente ne attirava il corpo, quasi fosse guidato da un'intelligenza estranea all'organismo stesso. Una concentrazione di forze occulte che si opponevano al pensiero e al comando del corpo. Quando, nel chiarore argenteo della luce lunare, raggiunse e varcò la porta del decrepito rudere dove viveva la donna dei misteri, la vide nuda di fronte a lui, come se lo aspettasse. Lei lo prese per mano e lo portò in una stanza. Lo fece stendere supino in un altare di pietra fredda. Tutto questo accadde sotto lo sguardo vigile della coscienza del contadino inerme, che però rimase inerte di fronte al desiderio di fuga, avendo perso il comando degli arti e di ogni terminazione nervosa. Le sue mani e i piedi furono legati con un laccio stretto nella posizione dell'uomo vitruviano. Comparvero allora tutt'intorno esseri ignobili, nani, di una bruttezza informe, con occhi giganti e incolori, senza sguardo, lunghi tentacoli sopra ciò che lontanamente potevano sembrare delle teste, affossate, senza collo, in corpi squamosi, che si muovevano nello spazio senza piegarsi o distendersi ma semplicemente fluttuando, come scivolassero su tenaglie di muco. Un essere di massa corporea più grande di loro, sempre che di materia si potesse parlare, ma non meno orribile, fluttuò sul suo corpo prigioniero e opportunamente denudato dagli alieni. Sotto la pancia molliccia del mostro così accovacciato sopra, si aprì un vortice di squamose labbra vaginali che attanagliarono il suo membro fino ad eccitarlo con un solo movimento meccanico e rotatorio, mentre odori nefasti di consumo corporale si liberavano nell'aria già corrotta. Quando il pene del prigioniero, con l'ausilio del solo movimento meccanico di quelle membrane, pur con la mente dissociata in perfetta antitesi da alcun pensiero libidinoso, arrivò all'inatteso orgasmo, la grande genitrice aliena liberò all'interno della sua mostruosa vagina, innumerevoli alveari di ovuli che raccolsero lo sperma umano, facendolo defluire in sacche contenenti larve fetali di organismi il cui dna e la cui codifica cromosomica, sarebbe rimasta inesplorata dalla scienza ancora per chissà quanti millenni, se il nuovo ospite del pianeta terra, non fosse venuto esso stesso incontro alla curiosità umana, mosso da velleità di sperimentazione genetica, finalizzata all'invasione totale e incontrastata dell'umanità.
Emmanuel Menchetti.
Emmanuel Menchetti.
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