Oggi sono riuscito a farmi dare a disposizione almeno un tavolo scricchiolante e una sedia semi-pericolante, per poter scrivere le mie memorie, appena sono riuscito ad alzarmi dal letto, in cui sono stato imprigionato per diverse settimane. Non è facile ottenere un banale tavolo per scrivere in una camera d'ospedale, ma dopo la mia petulante insistenza, ho convinto l'infermiera a farne richiesta alla direzione e ne ho ottenuto uno, anche se bislacco, almeno fino al termine della mia convalescenza tra soli due giorni. Non è molto il tempo rimasto per scrivere la mia storia ma cercherò di impiegarlo al meglio, tuffandomi in questo lavoro di ricostruzione dei fatti accaduti che precedettero il mio ricovero. Qui le giornate paiono interminabili, interrotte solo dalla routine delle visite e dei controlli di rito sul mio cuore e sulle mie rientrate funzionalità cerebrali, nonché dall'incontro di qualche amico o parente venuto a farmi visita in orari prestabiliti. Non voglio annoiare il lettore con la descrizione del mio male, non prima di parlare degli avvenimenti che accaddero prima della mia convalescenza e che spiegano anche il perché ora mi trovo qui. Voglio parlarvi della donna che mi ha cambiato la vita e che ora se ne è appena andata dalla mia camera d'ospedale, dopo un incontro in cui ci siamo entrambe commossi, guardandoci negli occhi e ci siamo baciati come non ci baciavamo da tempo immemore ormai. Voglio spiegarvi la natura del nostro rapporto, ma non prima di un breve preludio sulle qualità della mia persona, per chi non mi conoscesse così a fondo. Nella vita, come molti sanno, faccio l'attore di teatro. E' un'attività decisamente affascinante che mi aiuta ad evadere dal grigiore di dover solo apparire onestamente come se stessi nella vita, dovendo difendere la propria identità, nei rapporti sociali. Ma poi ... che cos'è la nostra identità? Perché cerchiamo la verità delle cose e nelle persone? Vi siete mai chiesti se preferireste conoscere una bella bugia o una brutta verità? beh .... io vi direi una bella bugia. A che serve sapere la verità se la nostra vita ha un inizio ed una fine che non è mai lieta ma che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere solo più lontana, facendo null'altro che allungare il nostro tedio e il nostro malessere di vivere, ritardandone unicamente il momento della fine. Se la vita non ha un senso, per quale motivo dovrei ricercare la verità di quello che ho vissuto? non sarebbe più comodo vivere nell'illusione della bugia se la sua luce rischiarasse le ombre della ragione, fino alla fine dei nostri, altrimenti, tristi giorni? Non è meglio vivere come se la nostra intera esistenza fosse una scena teatrale in cui non smettiamo di recitare sino a quando la nostra vecchiaia non ci condannerà a spirare senza più possibilità di ritorno? Non è meglio fingere sino al nostro ultimo respiro come una brava meretrice mentirebbe sul proprio piacere, illudendoci di aver vissuto una vita sensata, magari credendoci immortali e convincendo le persone che ci circondano di essere migliori di ciò che, in realtà, siamo? Non sarebbe più conveniente recitare la parte che sappiamo più di piacere alla nostra compagna, piuttosto che essere noi stessi rischiando di allontanare quella persona di cui comunque ci rendiamo conto di avere bisogno? se sappiamo di non meritarla altrimenti, perché essere onesti e perderla? Se la vita fosse eterna, credo che nutrirei maggiori scrupoli di onestà, saprei di non avere voglia di recitare per sempre ed avendo, solo in quel caso, l'esistenza stessa, un senso dettato dalla permanenza spaziale nel tempo e temporale nello spazio, preferirei viverla con dignità, dando voce alle mie reali sensazioni, avendo cura di poter sempre ricorrere ad una nuova possibilità nel caso di insuccesso. Saprei di avere sempre il tempo di rimediare e non dovendo sprecare interminabili energie intellettuali nel fingere, sopporterei maggiormente l'incessante, infinito trascorrere informe del tempo. La caducità però degli eventi, la futilità della stessa esistenza umana racchiusa tra nascita e vecchiaia, non ci lascia il tempo di errare, e se sbagliamo mostrando il vero di noi stessi, potremmo accorgerci di essere poi troppo vecchi per poter rimediare o per chiedere un'altra possibilità alla vita. Meglio allora studiare prima il terreno, e calibrare la nostra mossa prima di viverla, scegliendo quale maschera indossare, quale quella di maggior successo o che sarà più gradita od addirittura richiesta, nella società. Tutti indossiamo maschere perché ci vergogniamo del nostro io. Forse riusciamo ad essere noi stessi solo quando sogniamo, ossia nel momento in cui le mura della nostra coscienza vengono abbattute dall'inconscio, che mette a nudo le nostre paure e i desideri più reconditi, compresi quelli che non riusciremmo a confessarci. E' per questo motivo che ho deciso di fare teatro: per dare un senso ad una vita che, altrimenti, non lo avrebbe. Riesco appena a sopravviverci ma millanto che mi renda abbiente perché la perversa deformazione professionale del mio mestiere è tale per cui, quando non sono più in scena, difficilmente riesco a resistere alla tentazione di non recitare ancora. E' allora che tutti i miei rapporti, dalle più fredde conoscenze, alle amicizie più solide e agli amori, diventano finti perché io recito la parte che, all'occasione, più mi conviene ed indosso la maschera che i mei studi opportuni sulla persona di riferimento, mi rivelano essere la più attraente nel contesto di riferimento. Non mi sono nemmeno mai chiesto quale sia la maschera che più mi si addice e se debba necessariamente considerarmi più bravo a fingere indossando le vesti di un personaggio piuttosto che quelle di un altro, per il semplice motivo che non mi sono nemmeno chiesto chi sia io veramente. Semplicemente non mi interessa, io recito e fingerò di essere "l'altro" finché vivrò. A che servirebbe sapere chi realmente siamo? siete poi realmente convinti che l'intelligenza umana si possa davvero limitare ad una sola personalità, ad un unico carattere, portamento o stile, ad un soggetto solo? credete che si possa essere perfettamente buoni o splendidamente cattivi o forse tutti siamo di tutto un po', tirando fuori qualche bene o talaltro male che c'è in noi, a seconda della convenienza opportuna nel farlo? Noi non siamo tutta luce o tutta ombra, sono i retaggi culturali e le esperienze vissute che ci hanno insegnato quale parte utilizzare delle nostre potenzialità, di fronte al rimanifestarsi di eventi già vissuti. La vita ci insegna quindi solo a recitare, migliorando le nostre prestazioni di fronte al progredire della nostra squisita finzione, come un attore che studia recitazione per tutto il suo percorso di crescita, sino a non ricordare nemmeno più il suo vero nome, ma confondendolo con uno dei tanti personaggi interpretati in vita. Fu già con questa netta visione dei rapporti umani, che cominciai la mia relazione con una donna tremendamente affascinante e di cui mi innamorai molto presto. Non la conobbi all'interno della nostra compagnia teatrale, frequentata spesso solo da brutti anatroccoli che si illudevano di avere la stessa auto-consapevolezza della propria vita, ma che non si rendevano conto invece di trovarsi a recitare solo perché erano delle fallite come me che non riuscivano a piacersi. Mi fu presentata dalla compagna di un mio amico. Ricordo che al primo incontro le parlai subito della mia passione, del teatro, del cinema e della letteratura. Lei apparve molto entusiasta del nostro incontro, sembrava che le interessassero le mie passioni anche se ammise di non averle mai praticate. "Forse è solo una delle tante persone che si sono sedute tra gli spettatori, nella vita, perché hanno avuto il ritegno di non posare nel palcoscenico, inseguendo velleità immeritate o forse solo per quella mancanza di audacia che divide i fruitori dell'arte dagli artisti che, alle spalle dei primi, però vivono" pensai osservandola. Finse di essere interessata di arte e forse lo fece solo per rendersi attraente ai miei occhi perché capii quasi da subito che di teatro, cinema, letteratura, non ne sapeva quasi nulla. Capii però che era comunque affascinata non dall'arte in sé, dato che la passione avrebbe dovuto inevitabilmente portare alla conoscenza, ma da chi la praticava, forse perché immaginava negli artisti degli animi maggiormente sensibili che sarebbero stati capaci di trasmettere e donare molto di più nei rapporti umani. Arianna, questo è il suo nome, era una donna che anche se ignorante nelle materie umanistiche, era pragmatica nella vita sociale, sapeva destreggiarsi nei rapporti lavorativi, astuta e ambiziosa quanto bastava per farsi strada e intraprendere auto-compiacenti carriere creandosi spazi di rispetto e pregio negli organigrammi aziendali, ma non troppo da rovinare l'umanità dei rapporti. Sapeva essere anche molto dolce ed apparentemente fragile quando la sua mente, per natura molto pratica, abbandonava la fatica del calcolo di convenienza. Nel corso del tempo mostrò sempre di più questa sua tenerezza per cui capii che stava esprimendo la "vera se stessa", o forse solo quella che teneva scrupolosamente prigioniera nel suo lavoro di manager, nondimeno frustrandola. Ne fui lusingato ma allo stesso tempo, intuii, ad un certo punto, la convenienza di cominciare a recitare per rendermi ancor più irrimediabilmente attraente ad una mente già rapita dal mio essere. La parte più dura di un rapporto è sempre la fase iniziale in cui bisogna scervellarsi per riuscire a conquistare l'attenzione della donna desiderata. Una volta che si ha rapito la sua attenzione, siamo anche più liberi di sbagliare, la nostra compagna tenderà sempre a giustificare i nostri errori ma lo farà solo per convincere se stessa di aver incontrato l'uomo giusto e di essere conseguentemente felice. Questo ulteriore margine di azione che si acquisisce col tempo, mi permise di intromettere un nuovo livello di audacia nella mia recitazione, introducendo elementi nuovi e sublimando la mia capacità di emulazione di modelli artefatti. La nostra complicità ed intimità intellettuale si trasmise presto anche nel letto dove consumavamo rapporti liberatori, soddisfacendo reciprocamente i nostri bisogni più fisici. Il sesso è però un atto mentale ancor prima di carnale e quando hai a che fare con una persona intelligente, ed Arianna lo era, il tutto diventa più complicato. Il suo pragmatismo non la rendeva insensibile alle dinamiche psicotrope del sesso perverso. Il suo materialismo e la sua attenzione alla mondanità e alla superficie degli oggetti e delle persone, non la rendeva meno suscettibile al piacere delle sensazioni estreme. Era dotata di quella immaginazione sufficiente a captare i segnali più eccitanti di una mente fantasiosa, tanto da averne anch'essa bisogno. Eravamo diversi, le ho sempre detto che guardando una stessa pittura, io avrei notato le caratteristiche del dipinto sulla tela mentre lei ne avrebbe lusingato la cornice. Con l'avanzare del tempo e del numero di rapporti sessuali consumati, mi resi conto che ad un certo punto, avrei dovuto introdurre un elemento di novità per ravvivare la fiamma del suo piacere. Mi accorsi che a forza di ricalcare sempre gli stessi passi già fatti, seguendo le stesse posizioni nei medesimi ambienti, con gli stessi dialoghi, la mia amata si stava annoiando, sapevo che non me lo diceva ma la vedevo sempre meno entusiasta e notavo anche che il tempo per farle raggiungere l'orgasmo, diventava tragicamente maggiore. Non mi accontentavo di rassegnarmi alla consapevolezza della normale routine che inevitabilmente attanaglia, prima o poi, la vita sessuale di ogni coppia. Io la amavo e volevo che fosse sempre come la prima volta. Mi guardai allora un giorno allo specchio e decisi di mettermi una maschera, una ulteriore, ma che riaccendesse le sue fantasie e mi rendesse più desiderabile. Cominciai a proporle di filmarci con una telecamera amatoriale per rivederci nella veste di attori di una scena a luci rosse. Da subito vidi una rinnovata luce nei suoi occhi, seppi che avevo colpito giusto anche questa volta e che avevo anticipato quello che lei da tempo stava pensando ma che non aveva il coraggio di dirmi, probabilmente per non arrecarmi dolore. Cominciai a inscenare un nuovo personaggio, maggiormente cattivo rispetto a quello che avevo recitato sino ad ora. Gli cambiavo la voce facendola più baritonale rispetto alla mia, lo vestivo con vestiti che solitamente non indossavo, lo rendevo più rude e brutale, molto meno attento al suo bisogno di affetto soddisfatto sino a quel momento da coccole e continue carezze. Trasformai il mio personaggio, conferendogli connotati persino di violenza, asserendo, con il mio segreto pensiero, che la volgarità della forza fisica avrebbe destato con successo i suoi ormoni assopiti dalla dolcezza del mio prematuro vittimismo. Creai un personaggio, a suo modo, comunque attraente, ma meno femmineo di quello che ero stufo ormai di recitare, pur conscio che era quello che aveva fatto inizialmente innamorare Arianna. Mi lusingai per la mia fenomenale capacità di comprensione delle esigenze altrui, nel constatare che la mia amata gradiva farsi sbattere violentemente dal nuovo arrivato. Verificai, non con una dolente nota di rammarico, che da quando non ero più io a scoparla ma il mio personaggio, riaccelerai miracolosamente i suoi tempi di raggiungimento del primo orgasmo, la sentii da subito più lubrificata e pronta alla consumazione del rapporto. La mia depressione cominciò quando mi stufai anche del personaggio che io stesso avevo creato, facendola innamorare per la seconda volta, e chiedendole di tornare nel mio "me stesso" che altro non era che il personaggio recitato sino ad allora, ma dal momento del suo primo incontro, e che io solo sapevo essere una prematura, ulteriore, finzione ma che, per un perverso gioco delle parti, sentivo più "mia" forse solo perché era stata la prima maschera indossata, quella che aveva raggiunto per prima il successo, preparando la strada a tutte le interpretazioni successive. Ciò che mi addolorò fu il suo rifiuto di voler uccidere il nuovo personaggio. Mi sentii stupito a pentirmi di averlo creato perché in fondo io avevo sempre recitato e un bravo interprete non deve affezionarsi a una parte piuttosto che all'altra, l'unica mancanza che gli è concessa è quella di non sapere qual è il suo vero io, o meglio, quella di sapere di non averne veramente uno. Decisi di tenere in vita allora il sopraggiunto, quello che fino a quel momento, avevo chiamato segretamente "l'estraneo" e gli diedi un nome: Franco. Franco doveva essere il classico uomo comune, padre di famiglia, ma che tradisce la moglie con le meretrici, un grezzo, un insensibile che non conosce altra legge che quella del piacere proprio, che non donerebbe mai parte del proprio amore all'amante (di cui Arianna indossava, nella finzione, le vesti) ma che lo riservava solo alla propria moglie, anche se stufo di sbattersela. Franco era in fondo un debole che non conosceva altro che le tentazioni di fare sesso con più donne possibili, solo per mettere nuovi sciocchi tasselli nel proprio curriculum di incontri, ma mantenendo sempre distacco emotivo con tutte, quella freddezza, quell'eccessivo portamento poco affabile ma vigoroso e duro, privo di ogni tenerezza di cui Arianna ora necessitava, dopo una intimità confluita inevitabilmente nell'eccessiva mielosità dei dialoghi e dei gesti d'affetto. Ormai lei desiderava sempre Franco, mi accorsi che si era innamorata proprio del personaggio che, da attorello amatoriale quale ero, mi schifavo di più di interpretare. La mia vita non era più felice con lei. Non potevo più sopportare di continuare a recitare un Franco per tutta la vita perché se è vero che nella nostra infima esistenza indossiamo solo tante maschere perché non riusciamo a ricercare il nostro io perso nei meandri delle emulazioni, è pur vero che ci accorgiamo di saper scegliere quale preferire di indossare almeno finchè non diverremo attori talmente professionisti da poterle interpretare indifferentemente tutte quante, ma questa è un'utopia esattamente come quella dell'immortalità proprio perché se la vita è effimera nella sua durata, il suo tempo non è mai sufficiente a diventare attori perfetti. Ora mi trovo qui, in una camera di ospedale, di fianco al mio letto, svegliatomi da due settimane di coma, relative all'assunzione di una dose eccessiva di tranquillanti con cui volli uccidere Franco, pur a costo di trascinarlo nel buio eterno della morte, abbracciato tragicamente al mio illusorio me stesso. A proposito, il mio vero nome è Emmanuel e io sono il regista della mia vita, giunta, dopo tutte queste peripezie e le sue interpretazioni di scena, a questo mio fallimentare tentativo di suicidio. La mia maschera è rimasta qui, a guardarmi di fianco al mio letto, pronta ad essere indossata nuovamente, se voglio che la mia vita non perda la sua eterna battaglia con il desiderio di distruggere la falsità in cui ho imprigionato me stesso.
Emmanuel Gravier Menchetti.
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