Non
conosco il motivo per cui ora sono qui a raccontarvi la mia
esperienza. Ormai, nella comodità del mio divano di casa, tornato
salvo nella mia tranquillità, lontano da mondi sconosciuti, diversi
da quello della noiosa routine in cui sono tornato a vivere, non so
neanche più se ciò che mi appresto a raccontarvi sia stato frutto
di un sogno, di un'allucinazione ... o di una incredibile realtà, se
fosse una verità fisica o solo mentale, vissuta unicamente nella mia
immaginazione, probabilmente la prediletta chiave della conoscenza di
un mondo altrimenti incomprensibile con il nostro intelletto.
Qual'è il confine tra illusione e realtà se i miei sensi, tutti in
armonico concerto, hanno comunque percepito visivamente e
auditivamente una situazione che, per quanto pittoresca e
sconcertante, sia stata ricostruita in un'immagine univoca e
inequivocabile di sodomia degli equilibri, in un'esperienza
inaccettabile di ordinato disordine? Perchè il definire un'immagine
solo allucinazione dovrebbe tranquillizzarmi se quella visione mi ha
comunque creato inquietudine e sconcerto al pari di una verità
rigettata moralmente o traghettata dalla logica nella sfera delle
assurdità? Quale la differenza tra una realtà fisica ed una mentale
se comunque nella mia mente tale evento è stato vissuto come reale?
Quale diversità ciò comporterebbe nella propria soggettività
intellettuale? Non esiste un solo mondo ma tanti mondi quante sono le
menti pensanti che lo osservano o lo immaginano per cui le
peculiarità del creato sono forgiate dal solo occhio di chi le
guarda e le sue qualità intrinseche vengono estrinsecate
nell'interiorità di chi, osservandole, ne fa propria, ne ingerisce
visivamente la sostanza. Dimenticavo, mi chiamo Robert, sono un
inglese che viene dalla Cornovaglia e voglio raccontarvi della mia
incredibile esperienza vissuta durante il mio soggiorno a Monaco di
Baviera in un immenso parco nel corso di un pomeriggio soleggiato di
ordinaria follia. L'ampio giardino alberato di cui vi parlo è il
celebre Englischer Garten, situato in una zona centrale di questa
splendida metropoli, a ridosso dell'Hofgarten, vicino al museo
nazionale Bavarese delle armi rinascimentali e attraversato
dall'oscuro fiume Isar. In quel giorno maledetto da tutti gli Dei,
ero appena uscito da un ristorante nel centro, nei pressi di Marien
Platz, quando, avendo ancora a disposizione diverse ore prima del mio
treno per Francoforte e con la complicità di una calda giornata
soleggiata, decisi di farmi una bella camminata nei parchi della
città per ammazzare l'attesa. Appena entrai nel giardino, mi lasciai
gradualmente digerire lungo i suoi sentieri ombreggiati dai suoi
alberi così immensi, quasi fossero canali di un immenso stomaco di
vegetazione sparsa a profusione, piante dagli alti fusti intrecciati
e aggrovigliati tra loro come lunghi capelli nella testa di ciò che
si definisce volgarmente "rasta", dai rami così rigogliosi
da celare completamente alla vista un seppur qualche scorcio di
città, torre, campanile o di lontano monumento cittadino nonchè di
tutto ciò che fosse testimone della civiltà conosciuta e vi
percepii subito qualcosa di strano, come se la luce di quel sole
venisse oscurata da una scatola grigia senza uscita, un labirinto nel
labirinto della vita, una dimensione parallela di caos nel caos della
città fuori. Fiero e convinto del mio senso dell'orientamento,
coadiuvato dalla lucida immagine che avevo mentalmente della
posizione geografica in cui mi trovavo e di quella in cui vi era il
mio albergo (vicino alla Hauptbahnhof ossia la stazione centrale),
non mi feci impressionare troppo dalla primigenia sensazione di
smarrimento e alienazione suscitatami dalle lunghe ombre di quei
dinosauri di rami e foglie sopra la mia testa a celare il
rischiarante cielo, e decisi di proseguire per il mio sentiero. Ad un
tratto il suo tragitto cominciò però a perdere la sua linearità,
iniziò ad impazzire danzando sotto ai miei piedi in curve mozzafiato
prima verso destra, poi verso sinistra, poi ancora verso destra, poi
lanciandosi in una vorticosa, ipnotica circonferenza attorno ad un
albero le cui figure della corteccia, mi parvero, avvicinandomi
gradualmente ad esso, tanti volti dalle sembianze umane, come fossero
raccapriccianti maschere di un teatro. Trovai la visione molto
divertente e mi convinsi di proseguire per il suo funambolico corso,
convinto di poter sempre tornare indietro ripercorrendo semplicemente
all'indietro il tragitto fatto, per uscire così esattamente da dove
ero entrato; questa mia convinzione mi avrebbe ancora accompagnato
per molto a rasserenare il mio animo se il sentiero che seguivo,
oltre ad inerpicarsi in strani e incomprensibili vortici di caotico
disagio che parevano divertirsi a driblare i tronchi degli alberi
disseminati confusamente nel parco, non avesse cominciato
improvvisamente pure a dividersi in ulteriori sentieri minori che ne
echeggiavano il vorticoso tragitto, ereditandone e rimbalzandone,
perpetuandone l'eclettico portamento in altrettanti cerchi di follia
come fossero vene umane nella complessità organica di muscoli e
tendini del corpo estraneo di un essere gigantesco del quale io ero
diventato solo una molecola in esplorazione. La nuova diramazione che
mi si era dipanata innanzi, mi costrinse a scegliere uno qualsiasi
di questi nuovi sentieri figli, abbandonando così la strada maestra
da cui provenivo. Il mio ricordo di aver percorso l'intero Hyde Park
di Londra in diagonale da Marble Arch alla Royal Albert Hall, ossia
da un angolo al suo opposto senza perdermi, mi tranquillizzò sulla
primigenia impressione di smarrimento e mi convinse ad addentrarmi
nella selva oscura scegliendo casualmente uno dei suoi percorsi.
Questo parco era però decisamente molto più alberato e se non fosse
per qualche timido segno di civiltà come un cestino o una panchina
disseminata nell'oscurità annichilente delle ombre di quelli che
ormai non mi parevano più alberi ma dinosauri di rami e foglie,
sembrava di essere dentro una foresta selvaggia, distante anni luce
dalla presenza umana su questo pianeta. L'esistenza di questi
dinosauri verdi col volto fatto di foglie e le zampe e la coda
mimetizzati in rami vorticosi, mi negava alla vista qualsiasi
evoluzione di tutto ciò che stava fuori al parco e fu così che la
mia bussola mentale ... cominciò ad impazzire. Una sporadica
apertura sopra la testa mi riconsegnò un raggio di sole tra
l'oscurità delle ombre nella notte eterna di quel giardino di
angosce, ma la mia mente non ebbe neanche il tempo di rilassarsi e
godere di quello scorcio di cielo azzurro, che la luce rasserenante
dell'astro venne subito coperta da un enorme aereo, una umana nemesi
al mio coraggio o alla mia irresponsabilità, che pareva volare a
poche decine di metri sopra la mia testa tanto da gettare nuovamente
la notte su tutto ciò che mi circondava e irradiando un rumore
infernale come di motori impazziti che si riverberava tra le vene del
gigante organismo che stavo percorrendo e tale da sentirne persino le
vibrazioni nella terra sotto ai miei piedi, come si trattasse di un
violento terremoto. Pensai ad un aereo che stesse per cadere vicino,
un velivolo dirottato, percepii la stranezza di quella visione e mi
convinsi che qualcosa non andava e solo un disastro imminente poteva
costringerlo a volare ad un'altezza così proibitiva. Nulla appariva
più riconoscibile, normale. Anche le cortecce degli alberi
rincominciarono a mostrare volti umani. Mi avvicinai ad un tronco e
vidi tante facce, come di vecchi barbuti, uno dei quali urlandomi con
un volume che superava il boato dell'aereo poco sopra gli alberi, mi
disse "se ti sei perso, segui l'aereo sopra la tua testa, sta
per andare a schiantarsi proprio sulla stazione del treno!!" e
ad un tratto i volti si misero tutti a ridere, sporgendosi ancora di
più dalla corteccia dell'albero da cui parevano voler uscire e
guardandosi tra di loro come in una complice combriccola di amici
ubriachi. Preso dallo spavento mi misi a correre ma non sapevo dove.
Corsi il più lontano possibile da quegli alberi parlanti, da quei
volti che sembravano la materializzazione di tutto ciò che è più
ignobile e grottesco, demenziale e corrotto in un mondo che dovrebbe
solo essere onirico per conferire dignità alla nostra stessa
esistenza. Sfinito dalla stanchezza e con il fiato corto, mi fermai e
incontrai una vecchietta con al guinzaglio un cagnolino, che
camminava con i piedi nudi (tenendo le scarpe nelle mani) in un
sentiero di fango. Incoraggiato dal fatto di aver incontrato
finalmente il primo essere umano dal mio ingresso nel parco degli
orrori, le chiesi dove potesse trovarsi l'uscita più vicina e quale
la direzione per la stazione. L'anziana signora, sino ad allora
ricurva su se stessa, alzò allora lo sguardo ipnotico verso di me. I
suoi occhi parevano infiniti cerchi concentrici dentro al cerchio
dell'iride, ognuno di un colore contrastante col suo vicino. Cominciò
a parlarmi in un tedesco incomprensibile, io la fermai e le dissi
nella mia lingua che non conoscevo il tedesco e lei, dopo essersi un
attimo fermata con un'espressione di assenso, come se avesse capito
quello che le avevo detto ... continuò a parlarmi nella sua lingua!
Mi sembrava di impazzire!! Forse ero già pazzo, ma lei continuava a
parlarmi senza che io capissi una parola. Il mio intuito mi suggerì
che mi stesse spiegando il perchè camminasse a piedi nudi nel fango,
forse le era stato consigliato da un medico per le articolazioni, per
la circolazione, non lo so ma guardando verso il basso vidi il
mignolo di entrambe i piedi accavallato in alto verso le altre dita
come se fosse completamente spezzato. Poi la vecchietta si mise a
ridere in un modo gutturale, mostrando la sua dentatura marcia e il
suo cagnolino cominciò a ringhiarmi e ad abbaiarmi rumorosamente
mostrando dei denti affilatissimi e lucenti che fuoriuscivano dalla
carne viva delle gengive che parevano gonfiarsi in bolle per poi
esplodere in schizzi di sangue copiosi. Ormai in preda all'ansia più
totale mi misi a correre lontano, sicuro del fatto che quel piccolo
mostro ricurvo, impantanato nel fango con il suo piccolo ma terribile
animale legato, non potesse seguirmi. La risata della vecchia strega
fu presto riverberata da quella di tutte le statue attorno
disseminate nel giardino, che cominciarono poi a spalancare le loro
bocche sino a strappare le labbra scolpite in rinnovati cori di
disarmonia, di una cacofonia che non dovrebbe essere la colonna
sonora neppure dei peggiori incubi, che orecchie umane non dovrebbero
mai udire perchè offenderebbero in note sconosciute ogni regola
musicale, pure la più audace e controversa. Era tutto così assurdo,
claustrofobico, un labirinto disordinato di follia nel labirinto
della mia angoscia di paure che si smarrivano nella giungla
dell'emotività eccitata. Trovai finalmente una piantina del parco
con una freccia che indicava il punto in cui mi trovavo. La
sensazione glaciale di paura che avevo provato sino a quel momento,
mi gettò un attimo di ossigenante lucidità nella mente annebbiata
dal torpore del panico e dello smarrimento, compiacendo la mia
ricostruzione mentale del percorso fatto e della direzione che avrei
dovuto seguire per uscire da quell'inferno di foglie, tronchi
parlanti, aerei dirottati, persone alienate e cani mostrificati.
Intrapresi una direzione tra quei sentieri impazziti, nella follia
delle ombre anonime gettate nello spazio cupo e annichilente della
notte nel giorno, da alberi giganteschi che, abbracciandosi tra loro
e aggrovigliando reciprocamente i propri rami gli uni con gli altri,
parevano amoreggiare tra loro in un'orgia infernale che stuprasse la
verginità vegetale tramutandola in goliardia carnale, in modo tale
da nascondere persino la più timida visione del cielo e fomentare
dubbi anche solo sulla esistenza o meno di corpi nuvolosi sopra la
mia testa. Mi pareva persino di udire i gemiti femminei, come di
donne abbandonate al piacere, scaraventate dalla compostezza morale o
ipocrita della civiltà nel carnaio assurdo di quel godimento
selvaggio mentre rami di alberi penetravano le ombre negli anfratti
resi tenebrosi dalle ombre di altri e mentre le statute continuavano
a ridere di tutto ciò che vedevo attorno, forse anche di me. Dopo
un'oretta di cammino verso quello che credevo fosse il mio sentiero
verso l'uscita, ritrovai un'altra piantina. Osservandola attentamente
ci misi diverso tempo prima di trovare la freccia che indicava il
punto in cui mi trovavo proprio perchè quel punto era dalla parte
opposta a quella in cui credevo di trovarmi. Pensai che o la mia
mente provocata dall'emotività e dalla paura accecante, mi stesse
giocando brutti scherzi, o le piantine erano truccate nel senso che
qualche vagabondo per ammazzare la noia del tempo regalato dalla
disoccupazione, si divertisse a cancellare con qualche artificio le
frecce per disegnarne altre a caso, così da divertirsi a smarrire i
malcapitati turisti. "Che idioti!!" pensai, convincendomi
di quest'ultima ipotesi che rigettava l'idea della mia incipiente
insanità mentale in favore di quella altrui. A quel punto mi
convinsi di avvicinarmi al corso del fiume Isar, tenerlo ben
sott'occhio e accompagnarne il tragitto percorrendo il viale che lo
accostava lungo la sua riva, fino a quando sarei sfociato alla fine
del parco o che fosse l'uscita nord o quella sud (più vicina al
centro cittadino) ma che comunque mi restituisse al mondo della
civiltà senza più alberi che gettassero ombra sulle mie certezze e
nebbia sulle mie aspettative. Dopo aver accompagnato il corso del
fiume per diverse centinaia di metri, qualcosa mi disse che forse
stavo dirigendomi verso nord, allontanandomi ulteriormente dalla
posizione del mio albergo. Ad un tratto ricordai di avere una
piantina della città, la tirai fuori ma ovviamente non mi aiutò in
alcun modo e altro non poteva fare dato che mi trovavo al centro di
un manicomio di alberi di cui non conoscevo minimamente la posizione.
Sapevo solo di trovarmi dentro quella che la mia piantina riportava
come una grossa macchia verde al centro della città, uno specchio di
natura selvaggia inghiottita dalla stessa civiltà, ma non sapevo in
quale punto di quella "macchia" mi trovavo. Rassegnato
ormai alla disperazione e sorpreso da un attacco d'ira contro il mio
destino, gettai quella inutile piantina in un cestino, la cui bocca
poi si chiuse prontamente sul mio gomito, stringendomi il braccio e
divorandomelo mentre tentava di inghiottire tutto il mio corpo.
Sferrai violenti calci contro il bidone fino a ribaltarlo per terra,
liberando il mio braccio e correndo poi come un ossesso il più
lontano possibile dal cestino carnivoro. Continuai a seguire il corso
del fiume, quell'oscuro letto di acque verdi inaccessibili dal bosco
e che però pareva essere il mio unico amico, il mio riferimento, la
cui linearità riconsegnava ordine nella demenzialità e
nell'ignominia dei disordinati sentieri del parco. Fu così che
scelsi una sua direzione casuale e la percorsi sino allo sfinimento,
convinto che o dal lato nord o da quello sud, mi avrebbe per forza di
cose fatto uscire dal parco. La mia testardaggine mi premiò
riconsegnandomi, dopo chilometri percorsi a ridosso del fiume, alla
città e al suo ordine, cosa che poi mi permise di raggiungere, con
l'aiuto di una rinnovata tranquillità a favore di una maggiore
lucidità, facilmente l'albergo, riappropriarmi della mia valigia e
prendere il treno sperato. Questo è quello che accadde in un folle
pomeriggio di un giorno altrimenti normale di un piacevole soggiorno
nella splendida capitale bavarese. Non so se quello che ho vissuto
sia reale, frutto di un'allucinazione o il connubio di realtà e
sogno, vita quotidiana e sua interpretazione soggettiva, ma ciò di
cui sono sicuro è che non assumerò mai più sostanze psicotrope da
uno sconosciuto in pieno pomeriggio, prima di addentrarmi in un
grande parco di una immensa città che non conosco. La spavalderia
talvolta lascia spazio alla perdita del controllo e la lucidità allo
spasmo dell'angoscia, quando ci si addentra irresponsabilmente negli
interminabili ed incomprensibili meandri del bosco ... forse solo
della mente umana.
Emmanuel
Gravier Menchetti.
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